La mostra di Bouke de Vries resterà alle Officine Saffi di Milano fino al 14 marzo. Si intitola: “Sometimes I look East, Sometimes I look West”. E ci ricorda che i classici erano pacchiani e violenti.
Molto particolare il tipo di materiale usato nella mostra di Bouke de Vries: reperti archeologici cinesi, in gran parte rotti. Poi assemblati dall’artista. È una tecnica di produzione più che insolita, tanto più che da noi sarebbe vietata.
Molto affascinante è l’opera Two Tang soldiers: si tratta di due soldati di terracotta, uno lasciato col colore terroso tipico del reperto archeologico, l’altro dipinto dall’autore in colori sgargianti come, presume, potesse essere in origine.
La cosa ci spiazza e ci ricorda che noi, in genere, crediamo che le statue nell’antichità, sia cinese o europea, avessero colori asettici: della terracotta, del marmo, ecc.
Dopo secoli, se non millenni, sono rimaste solo poche tracce di colori su alcune statue.In realtà spesso le sculture erano dipinte, coloratissime. La mostra di Bouke de Vries ci ricorda che dovevano apparire pressapoco così:
I bianchi marmi canoviani, che vogliono evocare un’ideale età classica, astratta, fatta di estasi ed equilibrio, sono, in realtà, prodotto di istanze psicologiche e non frutto di ricerca storica.
Winckelmann è stato uno dei massimi teorici del neoclassicismo, il centro della sua filosofia è racchiuso in questa frase: la generale e principale caratteristica dei capolavori greci è una nobile semplicità e una quieta grandezza.
È molto bella, evocativa e suggestiva ma è avulsa da qualsiasi realtà storica. Le statue nell’età classica, soprattutto greca, erano tutt’altro che semplici e quiete. Ai nostri occhi sarebbero apparse un po’ una “pacchianata”: più affini ai nani da giardino che alle copie di opere classiche in gesso che adornano tanti giardini.
L’età antica era vivace, varia, allegra, colorata, lontanissima dal presunto idealismo classicista.
Gauguin con le sue tonalità sgargianti, col caleidoscopio di colori delle sue opere ha espresso, involontariamente, molto di più il vitalismo degli antichi di quanto lo abbiano fatti tanti neoclassici.
È un processo psicologico dicevo, appunto, più che una ricerca filologica. È “l’idealizzazione di un passato che non è mai esistito”, che diventa un rifugio (heimat) dell’anima. Un eremo per lo spirito dell’artista, o del letterato, che vede il male del proprio tempo. Questo, però, è il male di ogni tempo e non esiste un’età felice in cui rifugiarsi. Tanti personaggi “classici” idealizzati erano stupratori seriali, genocidi, stragisti, dittatori, etc. L’età “classica” era profondamente violenta e politicamente scorretta. La tanto celebrata democrazia ateniese era un regime di pochi maschi (bianchi suprematisti diremmo ora) che trattava schiavi, stranieri e donne come cose.
Le loro sculture erano vive, colorate ed eccessive, così come pareti e templi. Gli antichi rifuggivano dal bianco, per noi somma di tutti i colori, per loro assenza degli stessi. Le statue cui non potevano venire periodicamente ravvivati i colori erano in bronzo, non in marmo bianco, quindi soprattutto quelle sulle colonne e da esterno esterno.
Il termine “pompeiano” è adattissimo per definire gli ornamenti veri dell’età classica. Preservati dalle ceneri del Vesuvio, gli affreschi di Pompei ed Ercolano sono un ottimo esempio di come, in realtà, fosse l’interior design (oggi si dice così) romano. Una realtà più boccaccesca che canoviana.
La diffusione dei marmi in epoca romana segnò una certa diminuzione dell’uso del colore anche a causa dell’utilizzo di quelli policromi. Nel III/IV secolo siamo, infine, giunti all’utilizzo di lumeggiature d’oro che sottolineavano le forme. Ormai, però, non siamo più nella classicità pagana ma in quella cristiana in cui la Forma, in senso platonico, prese il sopravvento sulla Materia, e se ne distaccò.
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