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Chi era Dracula secondo Netflix? Un tizio che poteva restarsene nella bara

10 Gennaio 2020
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Il 4 gennaio Netflix ha rilasciato sulla propria piattaforma la nuova serie del duo inglese Moffat & Gatiss: Dracula, prodotta dalla BBC.

Il decennio sembra cominciare alla grande insomma, dopo un mese di feste, regali e abbuffate, il colosso dello streaming decide di fare un dono in ritardo di qualche settimana al suo pubblico.

Le carte per un ottimo prodotto televisivo ci sono tutte. Un soggetto conosciuto e amato da tutti, la firma di una delle televisioni più importanti del mondo, che solo negli ultimi anni aveva viziato gli amanti della serialità con opere come “Luther”, “The Office”, “Peaky Blinders”. E il miracolo che è stato riportare in auge una pietra miliare della televisione britannica come “Doctor Who”. A ciò va aggiunta la presenza di Steven Moffat e Mark Gatiss nelle vesti di creatori e produttori esecutivi di questa miniserie. Già avevano vestito gli stessi panni nella produzione di “Sherlock”, serie nella quale vengono attualizzati i casi dell’investigatore più famoso del mondo. Una mossa che fa la fortuna dell’opera e svecchia il personaggio, facendolo conoscere anche alle nuove generazioni. L’idea perciò di un Dracula con premesse simili sembra più che allettante, l’ideale per cominciare questo nuovo decennio.

Che errore di valutazione.

 

Dracula Netflix recensione

“Dracula” segue lo stesso format di “Sherlock”, vale a dire una stagione composta da pochi episodi (tre in questo caso) di novanta minuti. Tre veri e propri lungometraggi che permettono una facile fruizione allo spettatore e gli risparmiano il classico tsunami di episodi a cui si è solitamente costretti quando ci si affaccia ad una serie. La serie quindi si pone come un lungo film diviso in tre parti, cosa che si rivela utile ed inutile allo stesso tempo. Utile perché il tempo passato ad annoiarsi risulta essere alla fine al di sotto delle cinque ore, inutile perché con un minutaggio simile gli autori avrebbero potuto creare un prodotto completo con un approfondimento su personaggi secolari. Inutile dire che tutto ciò non è avvenuto, ma andiamo con ordine.

Il primo episodio di Dracula segue una struttura che ricorda quella epistolare del romanzo di Bram Stoker. Si basa tutto infatti sui flashback dell’avvocato inglese Jonathan Harker, che racconta la sua prigionia nel castello del conte a suor Agatha (che si rivelerà essere la Van Helsing di questa serie, vi risparmio il twist), da qui cominciano i problemi. I primi dialoghi tra il malcapitato Harker e Dracula rasentano il parodistico, con battute da parte del re dei vampiri che vogliono porsi come meta-umoristiche e che cercano disperatamente il consenso dello spettatore. Battute come: “vi assorbirò” o “siamo quel che mangiamo” che mal si amalgamano con la figura malvagia ed austera del romanzo. L’episodio quindi mostra la lenta realizzazione da parte di Harker del pericolo in cui si trova, nonostante le battute del suo ospite. La cinepresa si concentra sulla figura di Jonathan, lo segue nel suo esplorare il castello e nel suo perdersi all’interno di esso.

Una regia da impalare

La regia cerca di trasmettere il senso di smarrimento dello sfortunato con movimenti di macchina caotici e un montaggio volutamente incongruente. Ma l’unica cosa che riesce a suscitare è un forte senso di nausea e di nostalgia per il programma Lucignolo, famoso per la telecamera mossa “a c**zo di cane”. Gli orrori, è il caso di dirlo, del comparto tecnico non si fermano qui. La serie presenta anche una fotografia che renderebbe fiero il buon Duccio Patanè, personaggio di Boris. Il tentativo di giocare con luci ed ombre, alternando quindi in maniera decisa colori caldi e freddi, senza però accentuarli in post-produzione, porta ad uno smarmellamento generale dell’immagine, che si spalma sullo schermo e aumenta la difficoltà dello spettatore nel seguire le vicende narrate, difficoltà già molto grande a causa di una sceneggiatura piatta e noiosa.

 

Va meglio con Dracula episodio 2?

Tutti questi problemi si ritrovano nella seconda puntata, alla quale viene data una struttura alla “Dieci piccoli indiani” che cerca di salvarla dal ruolo di puntata filler. Ma che semplicemente riempie lo schermo con altri personaggi dimenticabili e stereotipati. Lo scienziato studioso dell’occulto, la vecchia nobildonna, una coppia sposata per convenienza ed una ciurma di marinai superstiziosi. Tutti personaggi insulsi, dei quali non si riesce neanche a gioire della dipartita a causa di un conte Dracula che dovrebbe suscitare le simpatie del pubblico, ma fallisce miseramente.

Il twist finale di questa puntata cambia il setting della terza e porta il personaggio di Stoker ai giorni nostri, per la precisione 123 anni dopo le vicende dei primi due episodi. Questo cambio di ambientazione sembra migliorare i mezzi tecnici, che danno sfoggio così di una regia più limpida ed un comparto fotografico con spunti interessanti, come l’uso del colore fucsia e delle immagini generalmente più nitide. In questo terzo episodio però che la sceneggiatura continua la sua spirale discendente, con un soggetto che sembra essere rubato dal manga Hellsing di Kota Hirano. E relazioni umane, in particolare quella tra Dracula e l’avvocato Renfield, degne di una parodia non ispirata. Il tutto con un finale di serie che smitizza la figura del principe della notte senza donargli nuova appetibilità. E che distrugge una delle figure più importanti della letteratura mondiale.

 

Personaggi morti, ma morti morti

I maggiori problemi di questa serie però risiedono nello sviluppo dei personaggi.

La scelta di dare centralità a Dracula e renderlo quindi protagonista assoluto non funziona a causa di un’incredibile assenza di carisma del personaggio. Nel libro il fascino del vampiro è dato dalla sua austerità e dall’essere una presenza costante e minacciosa, ma quasi di sfondo alle vicende dei protagonisti. Mentre qui è una specie di Tony Stark con la passione dei globuli rossi, caratterizzazione che cozza terribilmente con l’immaginario collettivo legato al personaggio.

Figlio di questa starkizzazione del protagonista è il secondo grande problema di questa serie. Cioè il rapporto tra Dracula e Van Helsing. Nel tentativo di modernizzare la storica rivalità tra i personaggi, Moffat & Gatiss attualizzano il rapporto tra (in questo caso) la studiosa ed il non morto usando dei trope del rapporto protagonista/antagonista appartenenti ad una concezione ultra-attuale. Troviamo una relazione quasi di stima intellettuale reciproca. Con i due personaggi che si stuzzicano a vicenda e con l’immancabile quanto inutile tensione sessuale tanto cara agli sceneggiatori moderni. Un legame tra i due che stona terribilmente con l’ambientazione dell’opera.

L’epitaffio

Dracula è una serie pretenziosa, piena di sé. Fallisce nel dare una ventata d’aria fresca ad una storia già conosciuta, la versione un po’ più edgy e british di quegli show per ragazzine che tanto andavano di moda anni fa. Alla luce di tutto ciò però, una domanda sorge spontanea. Ha ancora senso nel 2020 riproporre la storia del conte Vlad di Valacchia? Non è forse ora di lasciarlo morto e contento?

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