Come abbiamo capito che il bene comune non si fa in piazza, ma con i geek nei Palacongressi
Riflessione di un cinquantenne sulla filosofia di Marketers World, evento che ogni anno richiama a Rimini migliaia di persone con lo zainetto. Più ribelli di chi brucia le bandiere all’università
I guru del marketing digitale in fondo non hanno mai fatto nulla per uscire da uno stereotipo che i manager della generazione X non hanno in simpatia. Tempo fa ho sentito un amministratore delegato nato negli anni Sessanta e ancora attivo nel mondo dell’editoria, stressare i propri giornalisti e i propri marketer con la frase: «Quelli di cui dobbiamo aver paura non sono i protagonisti dell’informazione sul web tout-court, ma le magliette nere». Sapevo bene a chi si riferiva, e avevo ben presente che per tutti gli anni Dieci e oltre siamo stati perseguitati dagli aspiranti Zuckerberg, con il loro cotone elasticizzato intorno al busto, la maglietta, nera, sì ma anche beige, o blu, divisa dello startupper ieratico con pose che si collocavano tra la rockstar, il prete evoluto e l’insegnante di ginnastica appena uscito dall’Isef.
Ma noi X ci sbagliavamo. Avevamo visto troppe volte La rivincita dei nerd, avevamo radicata in testa la figura del geekkettone sfigato con le donne che però cominciava a sentire l’odore dei soldi e a intuire come farli grazie a un marketing tutto nuovo e automatizzato che lasciava il segno ma anche il tempo per fare feste bordo piscina e girare in ciabattone orripilanti dentro stanze odorose di maria e piene di desktop.
Non ci passava nemmeno per l’anticamera del cervello che anche noialtri “protagonisti dell’informazione” o “manager rampanti” eravamo stereotipi che camminavano. Il “gilet del giornalista”, la pipa o il sigaro, il lentino al collo per scegliere le diapositive da pubblicare. O i vestiti di sartoria, e le stringate inglesi consunte e lucide, per i manager che avevano a che fare con i Ceo dei grandi gruppi e si sentivano ingranaggi perfettamente oliati per far girare quelle macchine da soldi che erano gli anni Ottanta e Novanta.
È stato qui l’errore: non vedere nei millennial in t-shirt il valore aggiunto che stavano creando, solo apparentemente senza fatica; non vedere e comprendere come comunicavano e a chi e perché erano così convincenti; non capire che intorno a loro scorrevano i fiumi di soldi del venture capital. Buttati via? Sicuramente sì nel 90 per cento dei casi, ma almeno davano un senso al termine “rischio d’impresa”. Perché alla fine uno degli errori più grossi che potessimo fare è stato quello della parcellizzazione fordiana (e marxiana) del mondo: i talenti da una parte, i mezzi di produzione dall’altra, i marketer da una parte, gli ingegneri dall’altra, i laboratori creativi da una parte, i centri di costo dall’altra.
Oggi il mondo al contrario non è quello del generale Vannacci. Il mondo al contrario è quello che ha ridimensionato l’idea dell’imprenditore stesso, coltivando l’illusione (che con l’IA è sempre meno illusione) che tanta roba si potesse fare senza denaro, apparentemente. L’imprenditore è diventato un soldato che deve saper fare su tutti i fronti: un cecchino che scova le nicchie, un genio che ha idee rivoluzionarie, un venditore che sa trovare i quattrini per realizzarle. Tre in uno, zero sbatti come direbbe il Milanese imbruttito.
Questa troppo lunga premessa mi serve per introdurre un personaggio come Dario Vignali che ho seguito a distanza per un po’ di tempo e che ho poi conosciuto durante un evento a Rimini poche settimane fa. Sì mi ci è voluto un mese, sono lento, per comprendere come avrei potuto scriverne. Salvo poi scoprire che qualcuno lo aveva fatto, probabilmente meglio di come avrei potuto fare io e che quindi cito volentieri, ovvero Francesca Bianchi, che su Salt ha detto quello che tutta l’intellighentzia antitech non ha ancora capito, ovvero che la tecnologia è cultura. Lo è in quanto, come sa che ha letto due o tre cose di antropologia culturale, cambia l’insieme delle risposte che l’umanità dà ai propri problemi.
Dice la Bianchi che quell’evento riminese, Marketers World non è stato un evento di marketing, ma qualcosa che ha permesso a ogni singolo partecipante di sentirsi parte di qualcosa di più grande: «L’ha ricordato bene Dario Vignali, fondatore di Marketers, che far parte di un ecosistema in cui si crede e in cui ci si riconosce è molto più forte della forza di volontà del singolo, perché anche quando ci capita, come accade agli esseri umani, di “navigare il proprio buio”, è lì che entra in gioco l’ecosistema. “Perché se l’ecosistema cresce, cresco anche io, piaccia o meno, che ne abbia la forza o meno”, ha detto Vignali, al centro, assieme al co-fondatore Luca Cresi Ferrari della squadra di Marketers».
Sì, possiamo giudicare un po’ enfatiche queste parole, ma i personaggi come Vignali sono di fatto delle rockstar, altrimenti non riempirebbero i Palacongressi con tremila persone incollate alle sedie per 8 ore, sabato e domenica, tra workshop e una teoria che diventa pratica che non ti aspetti, dove intravvedi i contorni concreti di qualcosa che unisce obiettivi del singolo e della comunità.
Scatta insomma «un senso di appartenenza che si percepisce e che nemmeno i più bravi copywriter riescono ancora a descrivere a pieno. Ovunque vedrete ragazze, ragazzi, giovani e meno giovani, sfoggiare con vanto uno zainetto nero sulle spalle dalla scritta “Rebels make history”, come se fosse il simbolo di aver trovato, finalmente, il proprio posto nel mondo».
Come si può essere sognatori con la tecnologia? E perché questi giovani sentono la convention come un rendez vous movimentista, quasi fosse una manifestazione di piazza. Ci vorrà ancora tempo per capirlo, ma di certo abbiamo oggi una certezza: si può sognare anche senza le ideologie dei partiti, senza fregiarsi ci cause di cui molti hanno soltanto infarinature storiche. Anzi probabilmente sarà proprio questo ti po di “rebels” a fare la differenza.
Racconta la Bianchi: «Se arrivate la mattina del sabato appena prima dell’apertura, vi ritroverete davanti a vere e proprie orde di Marketers che si spingono avanti (educatamente, dai, sono “rebels” fino a ‘na certa!) come fossero in fila per un concerto di Manuel Agnelli. Perché? Che aspettano? Sono ipnotizzati? Che ci sarà mai dietro a quelle porte del Palacongressi?
Ecco, forse per immaginare anche solo vagamente quello a cui mi riferisco, mi piacerebbe che chiunque ascoltasse susseguirsi gli interventi di Andrea Bottoni che parla di copywriting con la stessa passione di chi recita un monologo teatrale e scomoda, non a torto, David Foster Wallace con Questa è l’acqua per spiegare come il copy possa scavare nell’anima del lettore. “Qual è l’emozione che state generando nei vostri lettori?”, chiede. Chissà, forse ora immagino e spero di suscitarvi un po’ di curiosità oltre a una noia mortale di un lungo articolo.
Ma alla fine sta tutto lì, no? Sta nella chimica delle parole, nella loro incredibile capacità di generare mondi! Ed ecco che mentre penso a tutti i copy che devo rivedere in quest’ottica sul lavoro, sale sul palco Paolo Borzacchiello, il re della neurolinguistica. Il suo speech è illuminante per chi utilizza le parole ogni giorno (ahèm, ciao chiunque!). Con le parole si possono generare mondi interi, realtà che non esisterebbero altrimenti. Lo sanno bene i fan di J.K. Rowling, per dirne una, ma non so se lo sappia altrettanto bene il tuo capo che ti addossa negatività o il genitore che continua a ripeterti cosa non sai fare. Forse è vero che è tutto un tema di dopamina e di endorfine: se sai giocarci, il mix perfetto è lì da scoprire. La cosa bella è che ognuno di noi può cambiare la propria storia, anche solo cambiando le parole con cui la si racconta».
Marketers World non sarà la riunione degli accademici dei Lincei, per carità, ma se solo non ci si facesse fuorviare dalla parola “marketer”, si scoprirebbe che questo è uno dei più riusciti tentativi di portare cultura e filosofia al grande pubblico. Che facciamo, lo buttiamo?
Per finire, i dati di Marketers World 2024 sono l’occasione per i marketer di guardare con attenzione al 2025 che arriva:
- 28,66% dei partecipanti sono freelance e il 28,30% sono imprenditori
- la metà lavora nel B2C (50,67%) e il resto nel B2B (42,89%). Non è una sorpresa.
- le competenze più richieste? Content creation (12,10%) e social media management (10,81%)
- la maggior parte dei presenti ha tra i 25 e i 34 anni (56,15%), a dimostrazione di un’ampia platea intergenerazionale
- il successo è personale: il 40% dei partecipanti ha detto che la crescita personale è la chiave. E chi sono io per contraddirli?