Per comunicare efficacemente serve allenare il pensiero strategico. The Millennial intervista Gabriele Naia, Strategy Director di Hello, l’agenzia creativa che fa parlare i brand.
Gabriele inizia la sua carriera come copywriter in agenzie indipendenti per entrare poi in We Are Social. Dopo aver ricoperto il ruolo di Editorial Supervisor, lavorando a progetti con Lavazza, Samsung, Vodafone, IKEA e molti altri, nel 2019 passa in Hello con il compito di fondare il dipartimento strategico. Oggi è Strategy Director, figura che coordina le tre “anime” del reparto: Research & Insights, Brand & Comms Planning, Media & Influence.
Quali sono i trucchi del mestiere? Come bisogna approcciarsi allo studio del proprio pubblico? Sfruttare o non sfruttare l’influencer marketing? L’autenticità è importante per la comunicazione social? Tutte le risposte nell’intervista a Gabriele Naia per The Millennial.
Sei Strategy Director dell’agenzia creativa Hello. Potresti parlarci del tuo ruolo e soprattutto del tuo approccio nella gestione del reparto?
Il reparto strategico di Hello copre quattro aree disciplinari: analisi, pianificazione strategica, media e influencer marketing. Il mio ruolo è dare un metodo e una visione comuni a queste quattro anime, affinché lavorino in modo sinergico e siano le facce di un unico poliedro. L’obiettivo è fornire alla comunicazione dei clienti una direzione fondata sui dati che sia azionabile e capace di coniugare potenziale creativo e risultati concreti. L’approccio alla gestione del reparto? Il mio è un percorso lavorativo un po’ atipico, non ho sempre lavorato nell’ambito strettamente strategico e negli anni mi sono confrontato con diverse aree disciplinari, cosa che, a posteriori, penso mi abbia aiutato a sviluppare una visione trasversale e duttile.
Quindi, per tornare alla domanda, nel mio attuale ruolo cerco di favorire la contaminazione e lo stretch di competenze. Oggi, in un’agenzia creativa come la nostra, credo che ogni analisi debba essere intrinsecamente strategica, ogni strategia di fatto data-driven, ogni piano media il diretto sviluppo della strategia di comunicazione, ogni strategia influencer un incrocio tra strategia di comunicazione e piano media (senza dimenticare i dati). Insomma, tutto si tiene. E saper allargare lo sguardo è fondamentale.
Gli influencer sono una parte importantissima della strategia di comunicazione dei brand. Quali consigli daresti a chi vuole far partire una collaborazione con un content creator? Quali sono gli aspetti da considerare per capire se il profilo è appropriato?
A costo di risultare banale o noioso direi che, appunto, per prima cosa va capita (o definita) una strategia di brand e comunicazione. Chi siamo e dove vogliamo andare, come brand? Quali problemi dobbiamo risolvere? A chi parliamo? Che risultati ci aspettiamo? Una volta trovate le risposte a queste domande, si può passare allo scouting dei creator. Qui subentrano criteri di selezione sia quantitativi (dimensione della follower base, perfomance media sui diversi canali, composizione socio-demografica della community), sia qualitativi (tono di voce, argomenti trattati, stile dei contenuti, affinità con il brand).
Oltre ai creator, i brand devono essere in grado di monitorare i fenomeni/trend che nascono sui social per poter comunicare con il proprio target di riferimento. Quali sono, secondo te, i trend da tenere d’occhio in questo momento e perché?
Ormai le piattaforme viaggiano a una velocità tale per cui ciò che oggi è sulla bocca di tutti tra una settimana rischia di essere già caduto nell’oblio. L’abilità sta nel riuscire a tracciare dei collegamenti tra i diversi trend, individuare dei pattern, così da capire se un fenomeno impatterà realmente a livello culturale o si tratta solo di un segnale a bassa intensità destinato a scomparire senza rumore alcuno.
Il famigerato “Goblin Mode”, parola del 2022 secondo l’Oxford English Dictionary, è in realtà la sintesi di tanti micro-fenomeni apparsi nel corso dell’anno: “Whimsy-gothic”, “Feral girl summer”, “Normcore” sono solo alcuni esempi. Eviterei quindi di citare singoli trend, e mi soffermerei piuttosto su alcune macro-tendenze: 1) quella che potremmo definire “radical authenticity”, ovvero un’attitudine al racconto intimo e senza filtri, che ribalta il mito dei social come quintessenza dell’artificio; 2) la crescita delle cosiddette “niche celebrities”, che fanno evolvere il concetto di community e fandom; 3) la creazione di contenuto “AI-powered”, che sta completamente riscrivendo i limiti e il potere tanto dell’immaginazione, quando del crafting.
Pensi che il concetto di autenticità nel mondo dei social venga percepito allo stesso modo dai millennial e dalla generazione Z? O pensi che le due generazioni abbiano una percezione diversa del nuovo fenomeno?
Il concetto di autenticità legato ai social è emerso solo negli ultimi anni, quasi come reazione a un eccesso di artificiosità e opacità accumulatosi nel tempo e giunto ormai a saturazione. Anch’esso, come i trend citati prima, è il risultato di tanti fenomeni – differenti eppure in qualche modo collegati da un sottile filo rosso – che vanno dallo scandalo Cambridge Analytica al movimento body-positive, dal caso Fyre Festival alla pandemia, passando per alcune evoluzioni tecnico-grammaticali delle piattaforme. Tutto questo per dire: trattandosi di un fenomeno tutto sommato recente, credo venga percepito in modo molto naturale e automatico dalla Gen Z, meno dai Millennials, che invece hanno vissuto in prima persona questo arco evolutivo. Ciò detto, penso sia comunque un aspetto, quello dell’autenticità, destinato a cambiare radicalmente la forma e l’utilizzo delle piattaforme, a prescindere dal tema generazionale.
Quali sono, quindi, gli elementi che si devono considerare quando si lavora a una strategia di comunicazione pensata per i Millennial e per la generazione Z? Quali sono secondo te i punti di contatto e quali le differenze tra le due generazioni in tema di social media?
So che non dovrei dirlo a un magazine intitolato The Millennial, ma in realtà penso che queste etichette generazionali siano sempre meno efficaci nel mettere a fuoco un target di comunicazione. Certo, essere nati in un determinato periodo storico ha un impatto sulla nostra visione del mondo, i nostri valori, le nostre priorità. Un esempio tra tutti: il cambiamento climatico ha un significato molto diverso a seconda che una persona sia nata nel 1970 o nel 2010. E tuttavia viviamo in tempi in cui la cosiddetta cultura mainstream si sta sgretolando, diminuiscono quei punti di riferimento che, a prescindere dall’amarli o odiarli, rappresentavano un minimo comun denominatore culturale.
Ragion per cui sono scomparse le cosiddette controculture – perché manca un paradigma dominante contro cui scagliarsi. Oggi la cultura è sempre più frammentata, fatta di nicchie e sottoculture e le etichette generazionali aiutano, sì, a tracciare un perimetro di massima, ma rischiano di generalizzare molto e appiattire tratti individuali fondamentali. Questo vale anche per le piattaforme social: oggi, in Italia, la percentuale di 18-24enni su TikTok è pressoché identica a quella dei 45-54enni. Quindi è molto importante considerare anche gli aspetti psicografici (personalità, attitudine, stile di vita, interessi, opinioni) e capire come il brand possa inserirsi efficacemente in questi tratti, ritagliandosi un ruolo nella vita delle quotidiana delle persone.
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