fbpx

Ciò che conta è la strategia. Intervista a Gabriele Naia, Strategy Director di Hello

27 Marzo 2023
843 Visualizzazioni

Per comunicare efficacemente serve allenare il pensiero strategico. The Millennial intervista Gabriele Naia, Strategy Director di Hello, l’agenzia creativa che fa parlare i brand.

Gabriele inizia la sua carriera come copywriter in agenzie indipendenti per entrare poi in We Are Social. Dopo aver ricoperto il ruolo di Editorial Supervisor, lavorando a progetti con Lavazza, Samsung, Vodafone, IKEA e molti altri, nel 2019 passa in Hello con il compito di fondare il dipartimento strategico. Oggi è Strategy Director, figura che coordina le tre “anime” del reparto: Research & Insights, Brand & Comms Planning, Media & Influence. 

Quali sono i trucchi del mestiere? Come bisogna approcciarsi allo studio del proprio pubblico? Sfruttare o non sfruttare l’influencer marketing? L’autenticità è importante per la comunicazione social? Tutte le risposte nell’intervista a Gabriele Naia per The Millennial.

Sei Strategy Director dell’agenzia creativa Hello. Potresti parlarci del tuo ruolo e soprattutto del tuo approccio nella gestione del reparto?

Il reparto strategico di Hello copre quattro aree disciplinari: analisi, pianificazione strategica, media e influencer marketing. Il mio ruolo è dare un metodo e una visione comuni a queste quattro anime, affinché lavorino in modo sinergico e siano le facce di un unico poliedro. L’obiettivo è fornire alla comunicazione dei clienti una direzione fondata sui dati che sia azionabile e capace di coniugare potenziale creativo e risultati concreti. L’approccio alla gestione del reparto? Il mio è un percorso lavorativo un po’ atipico, non ho sempre lavorato nell’ambito strettamente strategico e negli anni mi sono confrontato con diverse aree disciplinari, cosa che, a posteriori, penso mi abbia aiutato a sviluppare una visione trasversale e duttile.

Quindi, per tornare alla domanda, nel mio attuale ruolo cerco di favorire la contaminazione e lo stretch di competenze. Oggi, in un’agenzia creativa come la nostra, credo che ogni analisi debba essere intrinsecamente strategica, ogni strategia di fatto data-driven, ogni piano media il diretto sviluppo della strategia di comunicazione, ogni strategia influencer un incrocio tra strategia di comunicazione e piano media (senza dimenticare i dati). Insomma, tutto si tiene. E saper allargare lo sguardo è fondamentale.

Gli influencer sono una parte importantissima della strategia di comunicazione dei brand. Quali consigli daresti a chi vuole far partire una collaborazione con un content creator? Quali sono gli aspetti da considerare per capire se il profilo è appropriato?

A costo di risultare banale o noioso direi che, appunto, per prima cosa va capita (o definita) una strategia di brand e comunicazione. Chi siamo e dove vogliamo andare, come brand? Quali problemi dobbiamo risolvere? A chi parliamo? Che risultati ci aspettiamo? Una volta trovate le risposte a queste domande, si può passare allo scouting dei creator. Qui subentrano criteri di selezione sia quantitativi (dimensione della follower base, perfomance media sui diversi canali, composizione socio-demografica della community), sia qualitativi (tono di voce, argomenti trattati, stile dei contenuti, affinità con il brand).

Oltre ai creator, i brand devono essere in grado di monitorare i fenomeni/trend che nascono sui social per poter comunicare con il proprio target di riferimento. Quali sono, secondo te, i trend da tenere d’occhio in questo momento e perché?

Ormai le piattaforme viaggiano a una velocità tale per cui ciò che oggi è sulla bocca di tutti tra una settimana rischia di essere già caduto nell’oblio. L’abilità sta nel riuscire a tracciare dei collegamenti tra i diversi trend, individuare dei pattern, così da capire se un fenomeno impatterà realmente a livello culturale o si tratta solo di un segnale a bassa intensità destinato a scomparire senza rumore alcuno.

Il famigerato “Goblin Mode”, parola del 2022 secondo l’Oxford English Dictionary, è in realtà la sintesi di tanti micro-fenomeni apparsi nel corso dell’anno: “Whimsy-gothic”, “Feral girl summer”, “Normcore” sono solo alcuni esempi. Eviterei quindi di citare singoli trend, e mi soffermerei piuttosto su alcune macro-tendenze: 1) quella che potremmo definire “radical authenticity”, ovvero un’attitudine al racconto intimo e senza filtri, che ribalta il mito dei social come quintessenza dell’artificio; 2) la crescita delle cosiddette “niche celebrities”, che fanno evolvere il concetto di community e fandom; 3) la creazione di contenuto “AI-powered”, che sta completamente riscrivendo i limiti e il potere tanto dell’immaginazione, quando del crafting.

Pensi che il concetto di autenticità nel mondo dei social venga percepito allo stesso modo dai millennial e dalla generazione Z? O pensi che le due generazioni abbiano una percezione diversa del nuovo fenomeno?

Il concetto di autenticità legato ai social è emerso solo negli ultimi anni, quasi come reazione a un eccesso di artificiosità e opacità accumulatosi nel tempo e giunto ormai a saturazione. Anch’esso, come i trend citati prima, è il risultato di tanti fenomeni – differenti eppure in qualche modo collegati da un sottile filo rosso – che vanno dallo scandalo Cambridge Analytica al movimento body-positive, dal caso Fyre Festival alla pandemia, passando per alcune evoluzioni tecnico-grammaticali delle piattaforme. Tutto questo per dire: trattandosi di un fenomeno tutto sommato recente, credo venga percepito in modo molto naturale e automatico dalla Gen Z, meno dai Millennials, che invece hanno vissuto in prima persona questo arco evolutivo. Ciò detto, penso sia comunque un aspetto, quello dell’autenticità, destinato a cambiare radicalmente la forma e l’utilizzo delle piattaforme, a prescindere dal tema generazionale.

Quali sono, quindi, gli elementi che si devono considerare quando si lavora a una strategia di comunicazione pensata per i Millennial e per la generazione Z? Quali sono secondo te i punti di contatto e quali le differenze tra le due generazioni in tema di social media?

So che non dovrei dirlo a un magazine intitolato The Millennial, ma in realtà penso che queste etichette generazionali siano sempre meno efficaci nel mettere a fuoco un target di comunicazione. Certo, essere nati in un determinato periodo storico ha un impatto sulla nostra visione del mondo, i nostri valori, le nostre priorità. Un esempio tra tutti: il cambiamento climatico ha un significato molto diverso a seconda che una persona sia nata nel 1970 o nel 2010. E tuttavia viviamo in tempi in cui la cosiddetta cultura mainstream si sta sgretolando, diminuiscono quei punti di riferimento che, a prescindere dall’amarli o odiarli, rappresentavano un minimo comun denominatore culturale.

Ragion per cui sono scomparse le cosiddette controculture – perché manca un paradigma dominante contro cui scagliarsi. Oggi la cultura è sempre più frammentata, fatta di nicchie e sottoculture e le etichette generazionali aiutano, sì, a tracciare un perimetro di massima, ma rischiano di generalizzare molto e appiattire tratti individuali fondamentali. Questo vale anche per le piattaforme social: oggi, in Italia, la percentuale di 18-24enni su TikTok è pressoché identica a quella dei 45-54enni. Quindi è molto importante considerare anche gli aspetti psicografici (personalità, attitudine, stile di vita, interessi, opinioni) e capire come il brand possa inserirsi efficacemente in questi tratti, ritagliandosi un ruolo nella vita delle quotidiana delle persone.

Leggi anche: