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Diletta Leotta e Rula Jebreal brave e noiose, a Sanremo 2020 vince il politicamente corretto, ma nelle canzoni si può dire “stronza”

5 Febbraio 2020
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Schizofrenia, ambiguità, pace nel mondo, genderless in paillettes (4o anni dopo Bowie), tenorini, trappettini volanti, sdoganamenti già sdoganati da secoli (Ferro)

E poi, la storia di Rula Jebreal (bella ma ci ha già fatto un film diversi anni fa) e i bersagli facili: e il Papetee, e Rocco Casalino, e Salvini e Renzi e le sardine. E basta, dai, già paghiamo la Littizzetto per queste stronzate.

Nel complesso ciò che ne risulta è un beverone nauseabondo come un pisco sour fatto con l’uovo marcio. Se Sanremo 2020 è lo specchio dei tempi viviamo veramente dei tempi di merrda.

Mentre ancora non sappiamo l’audience (e manco la guarderemo) ci sale un battello ebbro di noia e paranoie. C’è tristezza ovunque: nei testi delle canzoni, l’emo trap ad usum cretinii, nessuno che canta gioia, amore, divertimento. O pochi. Fanno vedere una generazione di sfigati espertissimi nel piagnisteo sincopato.

La nonna di Diletta Leotta è un gigante di gioia di vivere in confronto a questa massa di voci da educande eunucande che rende inutile anche solo pensare  alla castrazione chimica.

Servirebbe di più la castrazione dell’idioma: sotto la scusa della libertà di rap tutti almeno uno “stronza/stronzo” lo dicono con piacere.

Tanto da farci esultare per il ritmo e le parole di Vasco nell’interpretazione di Irene Grandi che sembrano diamanti veri. Come il sound di Rapahel Gualazzi, che funge da Citrosodina dopo 3 ore di sta sbobba.

Il brutto è che pare tutto voluto. A partire dalla tonaca donmatteiana di Fiorello, che in realtà fa quasi uno spoiler a due minuti dalla sigla: Sanremo 2020 è finito, andate in pace.

C’è da chiedersi il perché. Nessuna colpa, intendiamoci. Un educato collegiale di nome Amadeus conduce senza spasmi e senza adrenalina, ma andrebbe anche bene se poi i pezzi fossero latori di un minimo di entusiasmo.

Diletta Leotta e Rula Jebreal si sorridono, ma si vede benissimo che, avendo l’occasione si butterebbero il phon nella vasca da bagno a vicenda. Più professionale Leotta, più empatica Rula. Ma non fanno la differenza.

Spottone cinematografico per l’ennesima muccinata e poi Emma Marrone, un’altra donna forte che canta bene ed è bella, ma perché l’hanno conciata come un mocio Vileda?

E Rita Pavone? Onore a Rita Pavone, una vera rocker. Favolosa e incazzata. Non ci si aspettava certo di vederla svettare (sì svettare) sulla decadenza tossica delle esibizioni.

Ai suoi esordi, Sanremo 2020 è un esercizio asettico di politicamente corretto, noioso anche e soprattutto per i nonni. Sembra di sentirli che dal divano chiedono di ridargli un po’ di Gerry Scotti per combattere gli istinti suicidi.

Ma come si fa? Tutti a parole a criticare l’eccesso di politicamente corretto per poi finire disinfettati come cadaveri dal medico legale. Con una paura insopportabile dei social network.

Negli anni 50 e 60 c’era una vera censura a Sanremo ma aveva più senso. Se a Lucio Dalla facevano dire “gente del porto” al posto di “ladri e puttane” e “gioco a carte” invece di “bestemmio” non era certo per timore di finire nei discorsi da Bar Sport. Ora invece è esattamente così. Si temono i discorsi del moderno Bar Facebook.

Con i social si rimane scottati, è vero. Ma perché? Non lo sapete dire un sano “chissenefregadeisocial”? Ribellatevi, minkia, siete pagati (e tanto) per farci divertire, rilassare, emozionare non per indurci in depressione.

Da domani tutti al Bar Sport (quello vero) a fare battute becere. Ve la siete cercata. Non meritate un pubblico.

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