Si può fare una critica? A Sanremo la musica è l’ultima cosa che conta

7 Marzo 2021
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La Venezi che ha fatto infuriare i puristi del politicamente corretto, il solito Codacons, Fiorello sbiadito. Rimane il rock molto annacquato dei Maneskin. Memo: salvare Dardust.

E anche ‘sto Sanremo ce lo siamo levati dalle palle, parafrasando la celeberrima battuta di Riccardo Garrone nel film “Vacanze di Natale”, una delle pellicole che i millennial potrebbero quasi recitare a memoria dalla prima all’ultima battuta.

Come sempre il Festival della Canzone Italiana ha fatto più parlare di sé e ha fatto più rumore sui social per i suoi contenuti extra-musicali; la vittoria è andata ai Måneskin e al loro rock (saranno anche bravi, ma il rock è un’altra cosa, please), davanti all’accoppiata composta da Michielin e Fedez; terzo posto per Ermal Meta.

Il vero vincitore? Dardust, suoi cinque pezzi presenti tra i finalisti. Un po’ come Charlie Charles nelle precedenti edizioni. Una ventata fresca che prova a spazzare via la polvere sulla credenza sanremese.

Esaurita la fredda cronaca, che cosa resta di questo festival? Il contorno, il rumore di sottofondo, lo starnazzare su Facebook. Gli highlights?

Lo sdegno dei radical chic perché Beatrice Venezi ha preteso di farsi chiamare direttore, altro uppercut al mento di chi sostiene la cancel culture, dopo quello assestato da Mario Draghi nel suo primo discorso al Parlamento («Il Presidente Casellati. Sì. Il Presidente»).

La consueta esternazione del Codacons, questa volta contro Chiara Ferragni “colpevole” di aver invitato i suoi milioni di seguaci a votare il marito (un buon motivo per votare la canzone di Fedez il più possibile), le critiche per i discorsi pseudo-motivazionali della giornalista Barbara Palombelli (il suo vero peccato per il “comitato” di cui sopra? Lavorare per una tv di Berlusconi).

E di Zlatan Ibrahimovic, ingaggiato quando probabilmente nemmeno lui pensava di poter ancora giocare a calcio; poi è intervenuto un infortunio ad evitargli la sovrapposizione di partite e festival, probabile sia stato un contrattempo della stessa matrice che quasi ogni anno colpisce il brasiliano Neymar Jr in prossimità del Carnevale.

 

Tutto questo fa più notizia perché Sanremo è ormai una sorta di reality show, dove la musica è l’ultima cosa che conta. Per una sorta di ecumenismo più o meno opportuno, negli anni si è scelto di allungare la lista dei finalisti e di infarcire la scaletta con una sorta di contenuti extra, portando la conclusione di ogni serata ben oltre le due di notte.

La qualità degli interpreti è quella che è, in pochi supererebbero l’esame della frontiera, già a Chiasso o a Mentone gran parte dei partecipanti risulterebbero illustri sconosciuti. Se poi a tutto questo si aggiunge che l’accoppiata formata dal “bravo presentatore” (Amadeus) e dall’“incursore” (Fiorello) ha ripetuto stancamante uno schema logoro, ecco spiegato il calo degli ascolti e anche di quello che negli anni sessanta e settanta i pubblicitari chiamavano “indice di gradimento”.

Con le attenuanti generiche del caso: la mancanza di pubblico in teatro, l’assenza di veri super-ospiti stranieri e il fatto che il pubblico sia chiuso in casa da un anno e alla sera cerca ormai altro che la prima serata in tv. Sanremo andava comunque fatto, pare sia sempre e comunque in grado di garantire robusti introiti sia alla Rai che al Comune ospitante, quindi va bene così, facciamocelo andar bene così.

 

E adesso? Amadeus e Fiorello si sono già sfilati da una loro possibile edizione-ter, Fiorello in particolare con l’ennesima battuta fuori registro di una performance nel complesso anonima («Vi deve andare malissimo l’anno prossimo. Vi diamo tutto ma vi deve andare male, ve lo auguro con tutto il cuore» Davvero l’ha detto?).

Rai e discografici devono valutare che cosa fare: se mantenere un prodotto televisivo per un’audience da terza età o provare a riformarlo e a renderlo davvero appetibile per più fasce anagrafiche e di mercato. Soprattutto sfruttando quell’autentico gioiello che può davvero diventare Raiplay, sia per la sua inestimabile library sia per la possibilità di creare interazione con il suo pubblico.

 

 

Sanremo è a un bivio: deve scegliere se tornare ad essere una kermesse musicale o un minestrone di troppi ingredienti che troppo spesso si mischiano male.

Essere meno provinciale nelle sue scelte musicali, allo stesso tempo senza troppi slanci giovanilistici, per quelli ci sono già i talent, che a loro volta hanno già mostrato sin troppo la corda.

L’idea migliore di questi anni è forse la serata del giovedì, dedicata alla cover, su quella magari meglio insistere con guest stranieri di livello, che storicamente in più fasi hanno saputo risollevare il festival.

Se si pensa che sul palco del Teatro Ariston si sono succeduti Louis Armstrong e Peter Gabriel, qualche speranza per Sanremo c’è ancora, al netto dell’interesse di superstar e relativi management per una promozione discografica in un mercato periferico come quello italiano.

Nel frattempo si può sempre studiare ed imparare dai migliori: nella notte tra domenica 14 e lunedì 15 marzo si svolgono a Los Angeles i Grammy Awards, gli oscar della musica. Peccato che nessuna tv italiana li trasmetta.   

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