Ciò che rende The Irishman un film efficace è che parla solo ed esclusivamente di morte. Lo fa con attori che presto saranno morti. Con un regista che presto sarà morto. E sono gli attori e il regista che hanno disegnato il nostro immaginario e ci hanno messo su colonna sonora e battute. Siamo tutti figli di Scorsese, noi Millennial, e questo film ci ricorda che alcuni di noi stanno arrivando a quarant’anni, un’età che credevamo impossibile potessimo raggiungere, fino a tre anni fa.
Tre ore e mezzo in cui la morte aleggia dappertutto e promette di portarsi con sé un modo di scherzare che è del secolo scorso. L’immaginario gangster stile Ellroy, il poliziesco, il film di mafia, De Niro con quei sorrisi che pare sdentato e tutto neo, Al Pacino The Short Guy col suo stile. Siamo gli ultimi, forse che possono, capire quelle atmosfere. Noi cresciuti col cinema e la tv, noi figli di Wes Anderson e di Tarantino, noi che la musica sulle immagini è tutto. A noi tocca vedere morire Joe Pesci che proprio ieri era in Mamma ho perso l’aereo.
E noi avevamo l’età di Macaulay Culkin e ora lui sembra un tossico smostrato come tanti dei nostri compagni di classe che erano così bellini da piccoli e adesso hanno la faccia come il culo grattato di un rospo.
The Irishman conta tre ore e mezzo in cui entri in un mondo che è solo tuo e senti la solennità di uomini che giocano a recitare, che recitando mettono in scena la loro vecchiaia, la loro grandezza. Anche loro finiranno in fondo alla fossa come i loro personaggi, dopotutto, eppure sono stati Scarface, Toro scatenato, Quei bravi ragazzi, L’avvocato del diavolo. Come possono morire gli immortali?
Con silenziosa e rassegnata arrendevolezza, aprendo le braccia ad accettare la grande mietitrice. La scena più bella del film è quando De Niro si sceglie la sepoltura. Non vuole esser cremato perché è troppo definitivo ne essere sotterrato perché è troppo definitivo. Sceglie un loculo su cui batte il sole, perché quello è non troppo definitivo. Sei morto si, ma non sei sottoterra. Nel film gli muoiono gli amici uno dopo l’altro. Amici che a loro volta avevano deciso altre morti con la leggerezza con cui noi mandiamo giù un drink. C’è poesia in questo livellamento.
Il cinema stesso, dicono, sta morendo e questo film a Hollywood non lo voleva fare nessuno. Scorsese l’ha portato a Netflix e invece di farci una serie c’ha tirato giù un lungometraggio di quasi quattro ore. Così il cinema non muore o se muore lo fa col catzio duro, come quei cadaveri in cui si manifestano erezioni in rigor mortis. E proprio Netflix che a detta degli specialisti è il killer di quel cinema, ne diventa il testimone. Così come si sono successi i ganster sotto Hoffa, gli omicidi, i decenni, i tizi svegli che rimpiazzavano altri tizi svegli, le mezze cartucce e tutto il caos mirabolante della storia umana, anche oggi si va avanti. Morendo non muore nulla, si fa solo posto ad altro. Dove vanno quelli che lasciano il corpo, nessuno di noi lo sa. The Irishman parla di questo.
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