Il Divin Codino e Roberto Baggio: meriti e difetti del film Netflix

30 Maggio 2021
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Roberto Baggio è il più grande calciatore italiano di tutti i tempi? Probabile. Difficile che quasi tutti i suoi allenatori la pensino così.

Il biopic “Il Divin Codino”, disponibile su Netflix da pochi giorni, ha messo una volta di più al centro della ribalta un fuoriclasse che da sempre ha fatto di tutto per sottrarsi alle gogne mediatiche. Appena si è ritirato, si è subito tenuto alla larga dal circo equestre delle trasmissioni tv dove ex calciatori discettano di qualsiasi cosa, in mix mal riuscito e mal mascherato di ultras a rosiconi sotto mentite spoglie.

«Mi mette a disagio dare giudizi sugli altri, per questo non vado in tv – le parole di Baggio in una sua recente intervista rilasciata al Venerdì di Repubblica – Vedo colleghi che sentenziano da professori, ma me li ricordo incapaci di fare tre palleggi con le mani».

Il Divin Codino su Netflix, il trailer: video

Recensione del Divin Codino, il film su Baggio

Sul biopic si sono già espressi tutti, dai critici televisivi più autorevoli ai tuttologi dei social in servizio permanente ed effettivo. Poche recensioni negative, pochi i giudizi particolarmente entusiastici: di sicuro non era facile raccontare un personaggio così introverso come Baggio, privo di eccessi alla Maradona, di aspetti facilmente caricaturali come Totti e di una qual certa fierezza tipica di Del Piero o Maldini.

Giusta la scelta di far ruotare tutto intorno agli episodi più negativi della sua carriera, ovvero il gravissimo infortunio a soli 18 anni, il maledetto rigore sbagliato nella finale dei Mondiali del 1994 e la mancata convocazione alla Coppa del Mondo del 2002?

Peccato aver saltato i  i suoi più importanti momenti di gloria, ovvero la vittoria in Coppa Uefa e il Pallone d’Oro con la Juventus nel 1993, gli scudetti con Lippi sempre alla Juve nel 1995 e con Capello al Milan nel 1996. Pollice comunque all’insù per “Il Divin Codino”, soprattutto nella narrazione del rapporto tra Baggio e suo padre


Roberto Baggio era il Messi degli anni ’90

Forse sarebbe stato meglio pensare ad una serie di più puntate per raccontare l’epopea di un fuoriclasse che adesso segnerebbe almeno 50 gol a stagione, come ha appena ricordato l’allenatore del Manchester City Pep Guardiola, compagno di squadra di Baggio al Brescia. Si ha presente Messi? Ecco: Baggio era il Messi degli anni novanta.

Per avere conferma di questo paragone, si può andare su YouTube per rivedere gran parte delle sue giocate; per allargare la prospettiva ben oltre il rettangolo di gioco, si può anzi si deve recuperare la puntata di “Ossi di seppia” a lui dedicata e disponibile su Raiplay.


Il grande merito del Divin Codino su Netflix

Il Divin Codino ha avuto un merito, tra i tanti: in una nazione come l’Italia dove ci si divide sempre su tutto tra destra e sinistra, tra Guelfi e Ghibellini, tra negazionisti e revisionisti, Baggio ha avuto l’incredibile merito di farsi amare da tutti, è stato il vero campione per il quale tifare a prescindere dalla maglia che indossava. Un affetto merito delle sue giocate incredibili e del suo low profile, quanto nato o sviluppato grazie alla sua adesione al buddhismo non è dato sapere.

Baggio rappresenterà sempre l’emozione della giocata inattesa, del dribbling impossibile, della palla messa dove nessun altro poteva nemmeno sognarsi di piazzare, il profumo e il sapore del pallone messo a dura prova quando si iniziava a giocare in strada, rompendo i vetri di casa e scavalcando cancelli per andarselo a riprendere.

 

Roberto Baggio e i suoi allenatori

Tutti pazzi per Baggio? Tifosi e giornalisti di sicuro. Allenatori? Quasi nessuno. Senza entrare nel merito di torti e ragioni, è un dato di fatto: Arrigo Sacchi, Fabio Capello e Marcello Lippi l’hanno più tollerato che sostenuto, in base al dogma per il quale conta più la squadra del singolo. Se il singolo si chiama Rivera, Baggio, Messi e Ronaldo, questo concetto è destinato a traballare parecchio, al netto degli equilibri di spogliatoio che vanno sempre preservati.

«Ho trovato uno più paranoico di me», dice Sacchi a Baggio in uno dei momenti clou de “Il Divin Codino”. L’ego di un artista contro le dinamiche di uno sport di squadra: un dualismo che non può avere vincitori, si può soltanto sperare non faccia vittime.

Un problema che nel calcio attuale si porrà sempre meno: ormai i calciatori si dividono tra fuoriclasse strutturati come vere e proprie aziende ed una serie di atleti quasi concepiti in fotocopia, distinguibili nella migliore delle ipotesi per i loro tatuaggi e ai quali si insegna tattica sin da bambini. Peccato poi siano in gran parte «incapaci di fare tre palleggi con le mani».

 

 

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