Distribuita in 6 episodi, della lunghezza di circa 50 minuti l’uno, La legge di Lidia Poët è una mini-serie di Netflix liberamente tratta dalla biografia della prima donna italiana ad esercitare l’avvocatura.
Con Matilda De Angelis nei panni della protagonista ed Eduardo Scarpetta nel ruolo del giornalista Jacopo Barberis, La legge di Lidia Poët sembra essere una piccola novità nella fiction italiana degli ultimi tempi. Di ambientazione torinese (finalmente, dopo mille serie ambientate a Napoli e a Roma), la serie presenta una narrazione ad episodi auto-conclusivi. La protagonista risolve di volta in volta vari misteri, un po’ in stile Enola Holmes. La serie si inserisce in un panorama sempre più ricco di prodotti televisivi che mostrano le lotte che le donne hanno dovuto affrontare per farsi spazio in un mondo popolato da uomini. Ciò non fa che ricordarci quanto le conquiste legate all’emancipazione femminile non siano per nulla scontate.
Chi era Lidia Poët, la prima avvocata italiana
La serie di Netflix è liberamente tratta da un personaggio realmente esistito e vissuto a Torino. Si tratta di Lidia Poët, la prima donna ad entrare nell’Ordine degli Avvocati in Italia. Laureatasi in giurisprudenza nel 1881 con una tesi sul diritto di voto per le donne, fu ammessa nel 1883 all’esercizio dell’avvocatura. Tuttavia, la sua abilitazione all’esercizio forense non piacque al solito branco di avvocati e giudici maschi. Questi ultimi, infatti, non riuscivano a immaginare una donna capace di fare qualcosa di più che badare alla casa e indossare capi d’alta moda. E così, quello stesso anno, la Corte d’Appello la radiò dall’albo.
La Poët presentò ricorso, ma il tentativo di riottenere la professione di avvocato fu fallimentare. La Corte di Cassazione sentenziò che no, una donna non poteva esercitare l’avvocatura, parlando di «differenze naturali insite nel genere umano» e di altri stereotipi di genere. Le discussioni in tribunale venivano considerate inopportune per delle «fanciulle oneste», le quali, tra l’altro, avrebbero indossato la toga su abiti ritenuti «strani e bizzarri», non adatti all’ambiente giuridico.
Lidia però non si lasciò abbattere e, pur non potendo esercitare direttamente la professione, collaborò per anni con il fratello Giovanni Enrico difendendo in particolare i minori, gli emarginati e le donne. Sarà solo nel 1920, all’età di 65 anni suonati, che la Poët riuscirà a farsi reinserire nell’Ordine degli Avvocati, grazie a una nuova legge che ammetteva le donne all’esercizio di impieghi pubblici. Certo, sono sempre meno anni di quanti ne impiegheranno i Millennial italiani ad ottenere la pensione, però ammettiamo che, ad esercitare per 37 anni per vie laterali una professione da cui si è stati radiati solo perché donna, ci vuole una grinta e una determinazione straordinaria.
La serie di Netflix su Lidia Poët
Matilda De Angelis porta sul piccolo schermo di Netflix una Lidia Poët spigliata e grintosa. Nell’elegante Torino ottocentesca, la Poët si ritrova a risolvere diversi misteri con una narrazione episodica in stile Sherlock Holmes. Ai casi giudiziari si intreccia il complesso rapporto sentimentale tra Lidia e il giornalista Jacopo Barberis, interpretato da Eduardo Scarpetta. Pier Luigi Pasino interpreta invece il ruolo del fratello di Lidia, Enrico Poët.
Nonostante una trama piuttosto semplice e un linguaggio forse troppo modernizzato per la classe borghese ottocentesca, La legge di Lidia Poët rimane un prodotto interessante e innovativo. La serie apre diversi spunti di riflessione in merito all’emancipazione femminile, sia in ambito sessuale (Lidia è una donna nubile dell’800 che però non si fa remore ad avere amici “con benefici” e relazioni al di fuori del matrimonio) sia in ambito lavorativo. Ne è un esempio la conversazione che ha la Poët con una delle sue clienti. «Non hai mai sentito il giudizio degli uomini addosso?», le chiede la donna, accusata di omicidio. «Sempre, tutti i giorni», risponde Lidia, «Ma non sono ancora riusciti a cambiarmi».
Avvocato o avvocata: l’imbarazzo linguistico generato dalle donne che lavorano
Merita un attimo di riflessione l’imbarazzo linguistico che si genera tutte le volte che una donna esercita una qualche professione legata nell’immaginario comune al genere maschile. Sulle diverse testate giornalistiche, c’è chi dice correttamente “avvocata”, chi non si arrischia e parla di “avvocato donna” e chi invece si lancia nel simpatico ma dubbio termine “avvocatessa”, sperando di beccarla giusta. Da dizionario, sia “avvocato” che “avvocata” sarebbero corretti, come spiegava Luca Serianni ad Adnkronos. Sembra però esserci quasi una paura ad utilizzare il femminile, tanto che in aula è molto più comune sentire il termine utilizzato al maschile. Inoltre, ricordiamo a tutti che se si dovesse considerare la parola “avvocato” come ambigenere, sarebbe forse meglio utilizzare l’apostrofo, scrivendo “un’avvocato” quando si sta parlando di una donna. Giusto una piccola precisazione, visto che, nel 2023, sembriamo essere ancora a disagio quando dobbiamo parlare del lavoro di una donna.
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