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World press photo 2019, ovvero come vincere facile fotografando la sofferenza

26 Aprile 2019
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Che cosa può insegnare questo World Press Photo? Nulla, e ci spiace dirlo. Il fatto è che c’è più verità giornalistica nei nostri selfie che nelle fotografie che vincono premi autorevoli

Il 2019 World Press Photo of the Year solleva anche quest’anno dubbi e critiche. Il che sarebbe fisiologico se si trattasse delle lamentazioni degli esclusi. Invece, questo prestigioso premio dedicato al fotogiornalismo mondiale sta ponendo dubbi che, un po’ in parallelo con la crisi dei giornali, riguardano un ventaglio di tematiche.

Dal cosiddetto sensazionalismo, all’etica professionale, fino al livello tecnico che può essere accettabile o non accettabile dalle giurie.

In verità, le foto premiate al World Press Photo sono generalmente belle. I fotografi premiati sono professionisti seri, che talvolta rischiano la vita per portare a casa un reportage richiesto.

Tuttavia.

La critica numero uno riguarda il concetto di morbosità. Il confine che separa una fotografia da un’immagine scattata con l’intento di colpire il lato emozionale più profondo è labilissimo. Di più: c’è un confine che separa la testimonianza dalla manipolazione.

La foto vincitrice quest’anno raffigura una bambina honduregna di 2 anni, Yanela Sanchez, ritratta piangente mentre lei e sua madre, Sandra Sanchez, sono prese in custodia dai funzionari del confine USA.

Siamo a McAllen, in Texas. La foto ha suscitato grandi emozioni social e ha aperto un dibattito politico. È stata scattata dal fotografo dell’agenzia Getty, John Moore, che in un’intervista con NPR, testata di attivismo sociale ha dichiarato: «Ho visto la paura nei loro occhi».

Mentre Sandra e Yanela venivano perquisiti, gli agenti hanno chiesto alla madre allontanare il bambino. «In quel momento, il bambino è scoppiato in lacrime», dice Moore.

«Ho preso la macchina, avevo a disposizione pochissimi fotogrammi di quel momento prima che fosse finito».

Queste parole sono le parole di un professionista consumato. Nessuno fa foto di cronaca pensando di vincere il World Press Photo. Fermi un’immagine, non sai quale sarà la narrazione che darai o che altri daranno di quell’episodio. Semplicemente perché quell’attimo ha un prima e un dopo che non si conoscono.

Ma la macchina dei mass media ha bisogno di simboli. Una foto ti deve raccontare una verità che tu vuoi conoscere e il Time con quella foto ci ha fatto una copertina. Con sopra scritto, polemicamente, Benvenuti in America.

time coperina con Yanela Sanchez

time coperina con Yanela Sanchez

Lo ha fatto per sostenere una posizione chiara contro Donald Trump accusato nel luglio del 2018 di voler separare le famiglie degli immigrati che giungevano ai confini del Paese.

Time aveva dato in pasto a un pubblico già pronto a criticare Donald Trump, una pistola fumante emozionale, la prova provata che le politiche migratorie del Presidente biondiccio erano disumane.

Il che può anche essere. Però quell’immagine non raccontava una verità, dato che poco dopo è emerso che madre e figlia non erano state divise.

Sì ma lui ne va fiero.

Accusato di promuovere una narrazione mendace, Moore ha confermato a CBS News  che gli agenti quella notte hanno agito correttamente. E comunque lui è soddisfatto della reazione alla sua foto suscitata dalla copertina di TIME: «È inutile parlare di immigrazione con le statistiche. Se metti un volto umano, umanizzi un problema, fai sentire qualcosa alle persone», dice Moore. «E quando lo fai le persone provano empatia. Se sono riuscito anche solo un po’ in questo intento, allora è OK».

Per chi fa il fotogiornalista (l’attività principale presa in considerazione dal World Press Photo) questa risposta è impeccabile. Ma siccome ti hanno pagato (e una copertina di TIME non costa poco) è abbastanza antipatico che ti metti nei panni dell’attivista duro e puro. Hai raccontato una balla, caro Moore, e l’hai raccontata facendo leva sulla sensibilità dei lettori.

Tutti i giorni chi ha il brutto vizio di fumare vede immagini strazianti di bambini al capezzale di padri intubati. Le stampano sui pacchetti pensando di darti un pugno nello stomaco. Invece dopo un paio di settimane al massimo non ci fai più caso. E, ancora una volta, l’asticella dello shock è stata alzata. Chissenefrega di quei due sconosciuti sul pacchetto.

Così è per tutte le foto retoriche o didascaliche, le immagini simbolo che sono soltanto un tassello decontestualizzato della verità. Oggi che abbiamo i social e le fake news queste scorciatoie sono inaccettabili e innescano nell’opinione pubblica una sola reazione: inattendibilità.

Premiando immagini così il World Press Photo mostra tutte le sue grinze e la sua polverosa tendenza a giudicare come capolavori delle immagini “facili” che in realtà manipolano l’informazione.

Le immagini “facili” sono ovunque, non solo al World Press Photo e non solo sui pacchetti di sigarette. Quando l’arte si piega alla dimostrazione di una tesi di terzi, sia essa politica, ideologica, economica o sportiva, denuncia indirettamente che l’autonomia di pensiero è persa.

L’ospedale psichiatrico, per esempio.

Un classico esempio che ogni fotoreporter veramente libero di testa vi può fare è quello dell’ospedale dei matti.

Fotografare i matti in ospedale è facilissimo: hanno espressioni angoscianti, la loro sofferenza è tangibile, la loro tristezza è lo spauracchio di tutti. E nel loro distacco dalla realtà i matti sono i soggetti più spontanei da ritrarre, anche più degli animali.

Perché, comunque sia, quando fotografi, per esempio, un cane, sei obbligato a interagire con lui e lui potrà darti comunque l’idea di non essere spontaneo perché ti guarderà cercando di capire che minchia vuoi da lui.

Ma dato che ciò che spaventa attrae, un servizio fotografico fatto di storie psichiatriche si trasformerà sempre in un sicuro successo.

E quindi.

Agli instagramers millennial, quindi  cosa può insegnare questo World Press Photo? Nulla, e ci spiace dirlo. Il fatto è che c’è più verità nei nostri selfie che nelle fotografie che vincono premi autorevoli. E, se volete, c’è anche più giornalismo nelle nostre stories che in quelle che vediamo in tv.

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