La voce di Massimo Callegari, giornalista sportivo e telecronista, è stata diffusa da Sportitalia, Mediaset e Dazn. Ora è stata anche inscatolata in un podcast di Dopcast. Si chiama Io c’ero e racconta il calcio in modo conciso, sfaccettato…e convivialmente epico.
Dalla “campagna di Russia” di uno psicofisicamente compromesso Maradona alla finale tutta pizza e mandolino tra Milan e Juve. Dalla finale più brutta della storia, Bayern-Valencia, impreziosita però dal melodramma personale di Amedeo Carboni, alla nascita della stella di Kylian Mbappé in Manchester City-Monaco. Pietre miliari della recente storia del calcio, almeno per Callegari. Che, se qui non può metterci la faccia, però ci mette la voce: “Sono ricordi che hanno emozionato me” spiega. E almeno pure un’altra persona ogni volta: nei vari episodi del podcast dialogano con lui, tra gli altri, Sandro Piccinini, Federico Balzaretti, Roberto Cravero, Amedeo Carboni.
Un bel giorno ti sei svegliato e hai detto: “mò ti faccio un podcast!”
Non proprio. Io c’ero è il risultato di un processo iniziato nel febbraio scorso. Volevo raccontare qualcosa di vissuto in prima persona. Inizialmente attraverso le mie esperienze di telecronista e giornalista, perché ho avuto la fortuna di vedere un po’ di cose. Poi ho pensato fosse troppo autocelebrativo. Ho preferito, con lo staff di Dopcast, unire la mia prospettiva a quella di colleghi e campioni per ricreare un mosaico sonoro più vicino alla complessità del reale. Ognuno ha la sua idea, il suo ricordo.
Ok, ma mica puoi urlare il sasso e nascondere la gola…
Ma no, di certo lì dentro c’è il mio gusto personale, la mia memoria soggettiva. Spesso gli ospiti hanno condiviso dei momenti importanti con me. Amedeo Carboni, per esempio, ha lavorato per anni con me a Mediaset. Fu uno dei primi calciatori italiani a fare fortuna all’estero. Mi ero immedesimato nella sua storia: un professionista incredibile che arriva vicino a vincere la Champions per ben due volte col Valencia, un’ottima squadra, ma non spettacolare. La prima volta non gioca perché è squalificato, la seconda sbaglia un rigore decisivo, e vince il Bayern. Non pensavo volesse raccontarlo, rigirare il coltello nella piaga, e invece eccoci qua.
Tutte le puntate hanno questo tono, quasi intimista?
No, il racconto di Mbappé è più tecnico. Quello con Sandro Piccinini è metagiornalistico. È impossibile dimenticare la sua telecronaca della finale Milan-Juve, per l’equilibrio tra emotività e professionalità. Mentre il racconto di Real-Juve, quello della famosa frase di Buffon sull’arbitro che ha un pattume al posto del cuore, è chiaramente il più polemico.
Che futuro hanno le voci o, per essere più prosaici, i contenuti audio?
Abbiamo rischiato di perdere il piacere dell’udito, i podcast sono una riscossa. Per adesso il nostro mondo è per lo più visivo. Instagram e tutto il resto, foto ovunque. E in genere l’ascolto è meno immediato, richiede più tempo. Ma io ho vissuto gli anni d’oro delle voci perfette e distinguibili di Tutto il calcio minuto per minuto. Forse il fatto che io sia riconosciuto come voce per le telecronache è un aiuto, fatto sta che che tanti ragazzi giovani, anche se non hanno vissuto quell’era gloriosa delle radio, mi danno un buon riscontro.
Insomma, il calcio si può ancora ascoltare?
Per prima cosa, va da sé, i miei podcast non sono radiocronache in diretta, e questo è un punto. Non so se la carriera di podcaster avrà una sua autonomia o sarà complementare a quella per me principale di giornalista e telecronista. Di sicuro per adesso nel calcio non ci sono grandi produzioni, non c’è ancora una competizione spietata.
Come farli funzionare, questi podcast, in un mondo così rapido e visivo?
Quando mi impegno in un progetto cerco sempre di riutilizzare la mia esperienza di utente. Mi piace sentire gli urli dopo il gol, per esempio, il pubblico che esulta. Così, durante le telecronache, lascio gli altri utenti liberi di ascoltare la gioia e la rabbia. Nel caso dei podcast mi immagino che la gente ascolti mentre guida, o nei momenti di relax. Ho due figli e un lavoro impegnativo ma non credo che le vite degli altri siano meno complicate. Così ho cercato una durata limitata, un linguaggio caldo ma cristallino. Da ascoltatore ti posso dedicare un quarto d’ora o dieci minuti, di più è difficile. Un podcast dura quanto deve durare: mai allungare il brodo.
I modelli americani però sono lunghissimi…
Sì ma c’è una differenza geografica. Negli USA le distanze sono enormi, quindi in media la gente passa più tempo in auto.
Quanto influisce la nostra ormai cronica incapacità di concentrarci sulla creazione di contenuti audio?
Questa cosa vale per la lettura, per la tv, per i podcast. Ma non può essere una scusa. Tanto dipende dalla qualità del prodotto. Funziona così per un libro che lasci a metà, per una telecronaca noiosa che ti fa cambiare canale. La sfida è catturare l’attenzione. Io, da utente, mi faccio catturare eccome, quando le cose sono ben fatte.
Come nascono le cose ben fatte?
Col tempo, le competenze, e i soldi. Quest’ultimo punto, al giorno d’oggi, non sempre viene visto di buon occhio. E i podcast spesso sono ancora considerati un costo superfluo. Ma per fortuna in giro si trova qualche illuminato, e io ho trovato Dopcast.
Tu vieni da Ferrara e lavori con la voce. Un bel problema. Come hai fatto a depurarti dalla “S” a salama da sugo e dalla “L” a catapulta? Dopo un gol non ti scappa mai un “maiàl”?
Ci ho lavorato molto e molto presto. Già da ragazzino sentivo che un accento troppo marcato avrebbe rischiato di stonare in certi contesti. Ho frequentato un corso di dizione a Bologna a metà anni ’90, poi ho imparato a modulare la voce, a dare un senso diverso alle varie situazioni che devo commentare grazie alla bocca, alla gola, al diaframma.
Maiàl!
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