Due volte resuscitato alla notizia della sua morte, alla terza chiamata Mino Raiola s’è dovuto arrendere ed è deceduto all’età di 54 anni, stroncato da quello che si è soliti definire un male incurabile.
Quando si scriverà una volta per tutte la storia definita del calcio professionistico mondiale, Mino Raiola dovrà avere un posto tra le prime file, se non in prima fila. Abile procuratore sportivo come pochi altri, Raiola è stato troppo spesso descritto come un pizzaiolo impresentabile per il suo look in bermuda e maglietta extralarge, definito una macchietta arraffasoldi da un giornalismo sportivo – soprattutto quello italiano – sempre più ridotto a un circo equestre, nel quale quasi tutte le firme si sono convertite ad aspiranti influencer in cerca di like e cuoricini, non facendo mai mancare la strizzatina d’occhio al dirigente o all’allenatore amico, spesso introdotto con un “ciao Max” (Allegri – ndr) come se si fosse al bar. Raiola avrebbe meritato ben altri narratori. Tra i pochi coccodrilli azzeccati, quello di Luca Marchetti per Sky Sport.
Raiola: altro che pizzaiolo…
Non serve nemmeno ricordare che Mino Raiola non è mai stato un pizzaiolo, ma semplicemente figlio di una famiglia che gestiva una pizzeria, non serve ricordare che Mino Raiola sapeva parlare 6/7 lingue (“ma quando devo riflettere e agire in fretta penso nel mio dialetto campano, è più veloce” era solito ripetere), non serve ricordare che ha gestito alcuni tra i migliori calciatori al mondo e non è mai stato lasciato da nessuno dei suoi campioni.
Li vogliamo ricordare, quantomeno quelli ancora in attività? Zlatan Ibrahimovic, Paul Pogba, Gianluigi Donnarumma, Erling Haaland, Matthijs De Ligt… e l’elenco potrebbe continuare a lungo, molto a lungo. Di sicuro ha cambiato il ruolo e il modo di fare il procuratore, e tanti se non tutti i componenti del mondo del calcio non possono che dirgli grazie. E i suoi 85 milioni annuali guadagnati – secondo le stime di Forbes – sono più che meritati: toccherà al fratello Vincenzo Raiola mandare avanti il tutto.
I veri problemi del calcio professionistico
Se il calcio professionistico è sempre più in crisi e rischia di essere soffocato dai debiti non è colpa di Raiola e delle sue commissioni milionarie. Non è certo una sua responsabilità se certi scarponi vengano pagati decine e decine di milioni di euro: al massimo si può parlare di correità o della semplice applicazione della classica legge della domanda e dell’offerta.
Il calcio professionistico sta implodendo perché le nuove generazioni preferiscono gli eSports, perché andare a una partita a una famiglia rischia di costare più di un fine settimana al mare, perché (in Italia) molti stadi sono anacronistici per non dire fatiscenti, perché si vuole spremere lo spettatore con una marea di abbonamenti per tv e app offrendo almeno una partita al giorno, con l’inevitabile effetto saturazione. Sempre meglio di quando le partite erano tutte alle 15 della domenica e si potevano soltanto ascoltare alla radio, anche questo aspetto sarebbe sempre più onesto non dimenticarselo.
Il moralismo accattone dei social
È tutto molto semplice: conta saper far bene il proprio lavoro, ottimizzarlo e far crescere il fatturato di tutto il movimento o conta di più il moralismo accattone dei soliti noti che da anni occupano i primi posti nelle classifiche dei più seguiti sui social? Gente che in cuor loro avrebbe pagato per farsi rappresentare da procuratori abili come Raiola per il loro libri, i loro tour teatrali, le proprie comparsate televisive.
Se proprio si vogliono identificare eventuali colpevoli nel calcio attuale, forse sarebbe il caso di puntare la propria attenzione verso chi ha deciso di far disputare la Coppa del Mondo in Qatar, di chi ha voluto o comunque permesso che le squadre di Premier League e il Paris Saint Germain venissero acquistati da russi, arabi e da altri magnati sparsi per il mondo. Di sicuro, Raiola avrebbe saputo gestite tutto quanto meglio, molto meglio.