Fare l’influencer non è più un lavoro, è uno stile di vita.
Il giornalista Clive Martin se n’è accorto per una semplice ragione: quando è arrivato il momento di scegliere una nuova destinazione e pianificare la sua vacanza, non si è affidato alla classica ‘guida turistica’, ha scelto di avventurarsi su Instagram ed esplorare gli hashtag #Instaholiday, i post sponsorizzati di Airbnb e le stories degli utenti.
La scelta alla fine è ricaduta sul Messico. Il paese è economico, si trova buon cibo e bei paesaggi, ma soprattutto è stato “ampiamente esplorato” da un fitto sottobosco di semi-influencer. Tutto, dai café alle spiagge, rende il paese adatto per una specifica categoria di persone: moderni viaggiatori ben documentati che si atteggiano da influencer. Ma non lo sono.
Essere o non essere
“Li ho trovati tramite hashtag, geolocalizzazione, foto di Tripadvisor e vlog su Youtube, tutti copioni. Pose yoga, cappelli larghi, abiti svolazzanti e post di solidarietà dell’Ucraina”, racconta Martin. “Queste sono le persone che sembrano influencer, si vestono come loro e gestiscono i propri social come se avessero schiere di follower, ma non hanno i numeri e non guadagnano neanche lontanamente quello che prendono i professionisti del settore. Sono dei dilettanti, dei discepoli. Sono quelli che sono stati influenzati dagli influencer”.
Una volta atterrato in Messico, la parte più interessante del viaggio, al pari di un esperimento sociologico, ha riguardato lo studio delle abitudini di questi sotto-gruppi. Si muovono proprio come se fossero una comunità: frequentano gli stessi posti e fanno tutti le stesse attività. “Erano quasi tutte coppie, con un’attrazione per la street art, amache, avena e qualsiasi cosa fatta di bambù. Nei rari casi in cui uscivano dalla loro zona di comfort culinario lo facevano per assaggiare lo street food locale, documentando il tutto con l’espressione ‘qui non funziona nulla'”. Quasi come se fossero stati dei giudici di Masterchef.
Influencer e Insensibili
Secondo Marin la sub-cultura degli influencer rischia di diventare pericolosa e insostenibile, per due semplici ragioni: il turismo di massa esiste da tempo, ma mai prima d’ora, e mai come gli influencer (e i loro seguaci), era stato fatto di tutto per trasformare le località in sfondi perfetti da pubblicare coordinati su Instagram, o da usare come location per i video di TikTok. “Agli influencer sembra non interessare se nel paese che stanno visitando dilaga la povertà, i femminicidi o la corruzione”, prosegue Martin. L’unica cosa che conta è portare a casa una bella foto. “Chissà se dormono la notte – si chiede il giornalista – chissà se tra una stories e l’altra hanno tempo di pensare alle disuguaglianze locali“.
Ciò che l’ha colpito maggiormente della #Mexicoexperience, è stata la nuova consapevolezza che ‘influencer’ non è più una job description, nemmeno un mondo a sté stante, confinato ai bar dei grattacieli di Dubai e alle casette color pastello di Notting Hill. “Si potrebbe dire che ha raggiunto davvero i livelli di sottocultura, una tribù, ma più di tutto è diventato il modello comportamentale standard per molti viaggiatori internazionali. – conclude Martin – Dove sono i vecchi cliché su scottature solari, karaoke e scopate con i camerieri spagnoli? Forse sono stati sostituiti da questo modo strano, coccolato e iper-cozy di affrontare il mondo”.