Che cos’è Editoria 4.0? È il momento di fare manutenzione delle parole
Il nuovo corso dedicato ai giovani editori, investitori e operatori della comunicazione, spiegato ai millennial e agli Zeta dal sociologo della Sapienza Mario Morcellini
Mario Morcellini, 75 anni da Ficulle (Terni) è Direttore dell’Alta Scuola di Comunicazione e Media digitali Unitelma Sapienza. Ed è uno di quegli studiosi che non ha paura. Certo, prima di tutto è un sociologo, prima di tutto. Poi è un esperto di linguaggi dei media e uno sfruttatissimo conoscitore delle dinamiche della comunicazione, nonché membro di titolate Commissioni.
Ma è soprattutto è un indagatore del mondo che non ha paura delle alchimie, di mescolare l’alto e il basso, di accogliere le parole chiave delle generazioni che via via ha portato e continua a portare, nel suo ruolo di docente, a comprendere i fenomeni più complessi della contemporaneità.
Va molto di moda sostenere che le Scienze Umane stiano conoscendo un nuovo successo all’epoca dell’Intelligenza Artificiale. Per l’approccio che hanno sempre avuto gli scienziati alla Morcellini questo non è affatto una novità. Perché siamo sulla scia di insegnamenti indelebili, alla Publio Terenzio Afro: Homo sum, humani nihil a me alienum puto, niente di tutto ciò che è umano mi è estraneo. Già, e nemmeno l’algoritmo è l’alieno che molti vogliono farci credere.
Tra me e il professore c’era un discorso in sospeso. Un discorso iniziato all’indomani di un colpo di scena, quando Mario Morcellini aveva sfidato un mondo accademico polveroso invitando in cattedra a La Sapienza di Roma Inna Zobova, top model russa di Khimki, testimonial della lingerie Wonderbra e laureata in antropologia. Per la gioia smisurata degli studenti ma anche delle studentesse che cominciavano ad averne abbastanza delle distinzioni mediatiche pretenziose tra modelle mononeuroniche e manager colte ma sgraziate. Molto dopo, il caso Chiara Ferragni ha dimostrato nei fatti che una laureata alla Bocconi può diventare un’icona femminile di bellezza e managerialità.
Ma allora eravamo nei primi anni Zero e il giornale per cui lavoravo mi chiese di intervistare questo preside che aveva avuto il coraggio di osare operazioni fino ad allora viste soltanto nelle più anticonformiste università californiane. Davanti a questo signore elegante con barba da saggio e una gardenia all’occhiello, il “me” sociologo si alternava al “me” giornalista e la conversazione tendeva a prolungarsi oltre lo spazio tipografico concessomi.
Eppure sai sempre che quando l’empatia scatta tra le persone, accadrà qualcosa d’altro prima o poi. E così è stato: l’occasione è arrivata, ed è il lancio del corso Editoria 4.0 realizzato da Unitelma e Unione Stampa Periodica Italiana con Officine Millennial, la società di storytelling che ho fondato e che è anche editore della testata themillennial.it.
Il corso di Alta Formazione
Si tratta di una serie di lezioni essenziali che hanno lo scopo di guidare e aggiornare i nuovi operatori dei media digitali, editori, publisher, giornalisti, pubblicitari ma anche i nuovi inserzionisti che da troppo tempo galleggiano nella scarsa chiarezza dei modelli imprenditoriali di comunicazione portati dalla rivoluzione della Rete.
Morcellini, qual è il ruolo dello scienziato umanista ai tempi dell’Intelligenza Artificiale? «Ribadire e rilanciare il ruolo sociale dell’editoria, della comunicazione, di un’adeguata manutenzione delle parole.
Se l’analisi dei dati è il nuovo petrolio, sta ai valori umanistici scaldare la freddezza dei numeri, offrirne un’interpretazione che davvero sia in grado di aumentare il benessere. L’elemento chiave è proprio la parola, che rivive oggi nelle storie, nella scrittura e nella voce che trovano continuamente nuove strade, nuovi contenitori tecnologici».
Quindi i sociologi apocalittici di fine secolo hanno sbagliato la previsione… «Si diceva che l’immagine fosse tutto, che ci avrebbe fregato con la sua potenza evocativa. Niente di più falso».
Lei lo aveva capito? «Tutti abbiamo un grande maestro, Umberto Eco. Ed è stato lui a introdurre per primo l’esigenza di discipline dedicate alla teoria e alla tecnica dei nuovi media, per studiare in che modo i contenuti, i linguaggi e i testi potevano adattarsi alla tecnologia».
Umberto Eco e la sua visione
Eco fu il primo a occuparsi di digitalizzare la conoscenza. Era davvero incredibile allora, nei primi anni Novanta, pensare a intere biblioteche improvvisamente disponibili su quei supporti digitali, i cd rom, oggi superati ma allora rivoluzionari. Però il semiologo espresse anche delle perplessità, per esempio sui social network fu durissimo e sull’idea di libro digitale aveva dubbi.
Arrivò ad affermare che interi manoscritti vergati su carta realizzata con vecchi stracci avevano resistito all’usura del tempo e che, al contrario la vita dei dati digitali avrebbe potuto essere drammaticamente più breve.
Umberto Eco secondo lei era deluso da questa evoluzione tecnologica? «Sapeva che le tecnologie cangianti non potevano essere ignorate, che dovevano essere affiancate, che se ne doveva sfruttare la potenzialità senza che questo volesse dire affossare definitivamente altri supporti. E in effetti oggi, dopo una crisi epocale, il libro come oggetto ha ritrovato un suo equilibrio e così sta accadendo per i dischi in vinile. La forza del Corso di Editoria 4.0 è proprio questa, stimolare il lavoro su discipline che integrino e aiutino la diffusione dell’informazione e della scienza, che sappiano connettere le diversità dei linguaggi».
Una certa idolatria tecnologica però è oggettivamente in crisi. Gli scandali per la violazione della privacy, le ingerenze politiche, cresce l’accusa ai Big Tech di creare algoritmi manipolatori e di evadere il fisco… «I dibattiti sulla tecnologia, sulla sua accettazione e il suo utilizzo ci sono e devono esserci. Oggi per esempio il faro è puntato sulla didattica a distanza e sul lavoro in modalità remota, la cui utilità è incontestabile».
Insomma, è meglio vigilare sui possibili aspetti negativi e trovare soluzioni per una nuova socialità, piuttosto che rinunciare alla rivoluzione in atto? «Bisogna essere consci di quante finestre si sono aperte per i laboratori dell’informazione e della comunicazione. Intere collezioni di libri, di fonti, di dati aperti, di pluralismo informativo».
Tutto questo in che modo impatta o impatterà sul tema delle identità locali, quanto rischiamo di perdere abbracciando comunità globali? «Questa informazione liquida si giova di uno scambio che supera il locale, ma come e quanto impatterà lo dovremo scoprire nel tempo. Credo che l’impegno dovrebbe essere quello di creare un ambiente meno agonistico tra realtà locali di diverse dimensioni».
Si riferisce all’incapacità, molto italiana, di non fare sistema anche nella comunicazione? «Penso che la globalizzazione abbia portato e porti anche frustrazione e che esista un ruolo chiave dell’informazione locale. Che oggi è facilitata dalla tecnologia nel creare davvero delle community capaci di far conoscere il piccolo, il locale, il territorio, o realtà che fino a oggi erano senza voce. E che ora possono averla, sviluppando le capacità per esempio dell’Editoria 4.0. C’è un’informazione di contiguità da esplorare come servizio al cittadino».
Eppure esiste anche una pulsione a chiudersi, spesso cavalcata dalla politica. «Anche se ci sono aree di resistenza e disinformazione, lo scambio di conoscenza e cultura è sempre esistito e il bilancio finale è sempre positivo».
(Alex Blajan -Unsplash)
Pensa che lo choc generato dalla Pandemia giocherà una parte nel cambiare le forme di comunicazione, a livello locale e internazionale? «Immagino una nuova normalità alla quale le persone si abitueranno, avendo però appreso una maggiore sensibilità al dolore, alla spiritualità alla cura reciproca. Certe scene, come la Messa in solitaria del Papa, le canzoni dai balconi, la ricerca spasmodica di relazioni, musiche e parole che accarezzino l’anima, anche se oggi sono finite hanno lasciato qualcosa che sta coprendo le cicatrici. Credo si possa dire che queste situazioni oltre al dramma abbiano svelato anche la forza di cui siamo capaci. E questa si trasmetterà alle altre generazioni».
Editoria 4.0, un viaggio altamente formativo
Sono risposte dense, quelle di Mario Morcellini, alleggerite tuttavia dalla “serissima leggerezza” dell’umanesimo. È quello che serve per chi si affaccia oggi agli studi universitari e vuole scegliere di dominare la tecnologia e di non farsi dominare.
Ci salutiamo con un impegno che forse è anche una missione, quello di insegnare a costruire un mondo meno “quantofrenico” di quello che abbiamo conosciuto negli ultimi anni.
“Quantofrenia” è la parola magica, ironica, critica e scientifica allo stesso tempo, che getta un ulteriore ponte per il futuro. Significa follia dei numeri, dipendenza tossica dai dati statistici, incapacità di interpretare davvero uno scenario che è anche ricco di emozioni umane che il puro dato non rivela.
È anche una parola che lega Morcellini a un amico (per lui) e un maestro (per me), Gianfranco Morra, Sociologo della Conoscenza e Filosofo Morale, scomparso lo scorso maggio. A lui e al suo insegnamento sono dedicate queste riflessioni.
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