Quando la fine dell’anno si avvicina, si sa, tra i vari riti di passaggio è immancabile la stesura di liste – fisiche o mentali. Avventura per avventura e sventura per sventura, si passano in rassegna i mesi dell’anno morente e ci si spreme le meningi nel tentativo di estrarre insegnamenti e lezioni. Riguardo ai buoni propositi 2020, il consiglio migliore ai Millennial lo dà un artista novecentesco: Vincenzo Agnetti.
Ci si perde in un flusso di coscienza irrefrenabile, trasportati da un’improvvisa inclinazione alla riflessione e da un appena scoperto spirito critico. Si passa la fase della lieve rabbia per gli imprevisti, quelli che ci fanno sussurrare “Perché proprio a me?”, e quella della flagellazione “Come posso essere stato così stupido?”. Ma, una volta finito di recitare 10 Ave Maria di autoflagellazione, dentro di noi iniziano a nascere sentimenti completamente nuovi.
Si accende un fuoco – fatuo – della speranza, della voglia di rifarsi, dell’energia di chi è pronto ad un nuovo inizio e si parte con una nuova lista: quella – famosissima – dei buoni propositi. Su internet i vari blog dispensano suggerimenti su cosa inserire in base al proprio obiettivo, che tendenzialmente spazia tra un generico “vivere meglio” ad un intramontabile “amare se stessi” o un intraprendente “essere finalmente felici”. Le influencer non rinunciano alla possibilità di imporsi come trendsetter anche di speranze e allora Instagram in questi giorni inizia a pullulare di stories in cui vengono raccontati propositi non meno generici e intraprendenti, conditi con velati quanto ammiccanti accenni a entusiasmanti progetti lavorativi “Di cui per ora non posso parlarvi”.
La versione di Agnetti
Io oggi non ho nessuna pretesa in più di qualsiasi altro dei personaggi sopracitati e voglio proporvi la prospettiva da cui sono partita io quest’anno, che è stata la stessa sia per il resoconto del 2019 che per il prospetto del 2020. La rivelazione è avvenuta dopo essere rincappata in un’opera di un artista novecentesco che mi ha sempre affascinato molto. Si tratta di Vincenzo Agnetti, tra i maggiori esponenti dell’arte concettuale italiana, che negli anni ha proposto opere di spessore in cui esplora una dimensione profondamente riflessiva, ma mai chiusa in se stessa e si afferma come maestro nell’arte dell’uso della parola.
L’opera che in particolare ha attirato la mia attenzione è Meridiana – Tempus Mentis del 1972. Sotto le elegantissime linee geometriche, in basso a sinistra appare la scritta IL TEMPO È IL PESO MENTALE DEGLI AVVENIMENTI.
Si tratta di un lavoro che conoscevo già, ma che riscoperto a distanza di tempo – proprio come un libro, un film o una verdura odiata da bambini e abbandonata per decenni – si è mostrato ai miei occhi sotto una luce nuova. Dopo qualche notte insonne, ho capito cosa Agnetti stesse cercando di dirmi questa volta – o forse meglio, cosa io volessi sentirmi dire da lui. Ho basato su questa frase il mio bilancio del 2019, passandone in rassegna gli eventi. Senza attribuirli ad un mese o ad una data precisa e soprattutto appropriandomi del pieno diritto di dare a ciascuno il peso che ritenessi più opportuno. Allo stesso modo, ho deciso che mi impegnerò a vivere il 2020 svincolandomi quanto più possibile dall’idea oppressiva del tempo – che passa, che è sprecato, che sta arrivando – e concentrandomi su quello che man mano succede. È una vera e propria filosofia di vita, che permette di guardare all’esistenza non più in virtù del concetto di “Quanti anni ho vissuto”, bensì di “Cosa ho vissuto”.