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Il Cocoricò chiuso è il pensionamento della X generation degli anni 90

1 Luglio 2019
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A volte bisogna aver paura di andare su Wikipedia: è incredibile lo stile esiziale con cui stabilisce il confine tra ciò che è e ciò che non è più. Prendiamo il caso Cocoricò, Cocco per i fans degli anni 90. Ecco il wiki-epitaffio:

«Il Cocoricò di Riccione è stata una delle discoteche più famose d’Italia gestita dalla società Piramide S.r.l.

Foto di Chico De Luigi

Si trova sulle colline di Riccione, tra la città e l’uscita dell’Autostrada A14. Tempio della musica techno italiana fin dagli anni 90, si è guadagnata una fama crescente col passare del tempo, tanto da essere definito “una monumentale Mecca della musica dance”. Nella classifica “Top 100 clubs” stilata da DJ Magazine nel 2015 si collocava al primo posto tra le discoteche italiane e al 16º posto tra le discoteche di tutto il mondo».

Foto di Chico De Luigi

Come sempre, nei necrologi di Wikipedia manca l’anima. Manca il genius loci, l’onfalo celtico e psicogeografico, quell’ombelico energetico che attraeva migliaia di ragazzi negli anni 90.

Il Cocoricò chiuso è la demolizione dell’avamposto attraverso il quale si doveva passare per avere la patente di artista “cannibale” come era definita quella parte di generazione X che scriveva, cantava, girava video, mixava pezzi, consumava MDMA (ecstasy). Gli artisti della Gen X.

Il Cocoricò chiuso rappresenta la dismissione di un tribunale terribile, assurdo e smartissimo, in grado di ridimensionare le sottoculture ufficiali, di annientarle alla prima virata di mainstream: i Daft punk cacciati con violenza dalla console per ritmi troppo lenti.

Foto di Chico De Luigi

Il Cocoricò chiuso, oggi, nel 2019, conferma che fu il primo. L’Uno. La discoteca numero 16 nel mondo, ma Uno in Italia, con la piramide massonica al centro e sopra al centro della scena. Il Louvre del cannibale. Le altre discoteche hanno chiuso ormai anni fa e c’è chi da almeno un lustro si diletta a fare ritratti di ruderi come in una Herat appena riconquistata dopo il saccheggio dell’Isis.

Sul Cocoricò chiuso grava la cappa del pensiero dominante, neo hippie, neo folk, neoglobalista e vattelapesca: la movida (chemminchia di parola, la m o v i d a) ora è in spiaggia, il divertimento è più sano, i ragazzi non devono per forza spendere migliaia di euro in parrucche, drink sospetti e addobbi corporei. «Your masquerade I don’t wanna be a part of your parade»: il ripiegamento depressivo – pensiero unico – sta tutto in un testo dei Family of the year, Hero.

Foto di Chico De Luigi

Per un Cocoricò che chiude, non ci sono altri pezzi di libertà che lo sostituiscano. Ci sono i suoi figli che vagano orfani, c’è di nuovo lo sballo eroinomane, come negli anni 70, con il suo portato di disperazione e degrado nei boschetti di Rogoredo che ricordano tanto le rotonde riminesi di Piervittorio Tondelli. Non è meglio con le droghe da performance, naturalmente.

Quando non vagano orfani, i figli del Cocoricò, fanno serate in giro. Se sono furbissimi come gauchos, come lo è senza remore Marcelo Burlon, e monetizzano le grafiche di quegli anni in magliette da 400 euro l’una che i 16enni mettono al secondo posto tra i desiderata, dopo l’ultimo Samsung.

Il Cocoricò ha chiuso anche perché i suoi figli se ne vergognavano. L’unico Cocoricò bello è il Cocoricò chiuso, sembrano dire i sopravvissuti. Quell’ultimo morto di overdose, nell’agosto del 2015, Lamberto Lucaccioni di Città di Castello, ha segnato l’inizio della fine del locale. Giunta, dopo lunga malattia, a metà giugno del 2019. Per fallimento.

Il Cocoricò aveva un’età millennial: era nato nel 1987. Aveva catalizzato l’immaginario dei giovani creando l’estetica della dissolutezza finto democratica. Era il club trasgressivo di fine millennio dove i divani e i cessi erano quelli dei ricchi e la gente esibiva facce alla Strange Days, pellicola millenarista del 1995 firmata da Kathryn Bigelow.

Foto di Chico De Luigi

La Piramide Massonica era un esplicito riferimento a un culto, gli illuminati veneravano le pupille bianche di Principe Maurice, un nobile toscano in abito da gheisha o da contessa o con il collare elisabettiano.

I figli del Cocoricò, quelli che gli devono se non tutto, molto, fanno finta di niente. Hanno preso, o forse creato quell’estetica nichilista degli anni 90. L’hanno scritta nella loro storia. Come Isabella Santacroce, allora nota come la scrittrice cannibale di Fluo, e poi di Destroy e poi Luminal.  E poi via verso nicchie di lettori, forse più raffinati, sicuramente non cocoricozzati. Isabella Santacroce del Cocoricò non parla.

Foto di Chico De Luigi

In una lunga intervista rilasciata a Rolling Stone, le spara acide come allora, ma intorno a lei non ci sono più i bagni-privé del Cocoricò, si vagheggia di conferenze all’Università di Tor Vergata. A quasi 50 anni ci sta.

Forse, sembra di intuire, qualcosa del Cocoricò è rimasto negli arredi di casa Santacroce a Riccione. Scrive l’intervistatore: «Isabella è una monaca anacoreta, che ha per convento la casa natale di Riccione, dove si è accolti da gigantografie di spettacoli di Pina Bausch, grandi cerchi dipinti sulle pareti, amabili mobili di modernariato e strutture d’acciaio nero, inquietanti fari puntati in varie direzioni, gelsomini che romanticamente si arrampicano intorno alla porta finestra e cervi di gomma a grandezza naturale che pascolano in mezzo a musica elettronica a volte piuttosto violenta».

Ma sono cascami. Il resto è tutto un parlare difficile, come fa l’Europa quando piove.

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