Il caso del neonato lasciato alla Culla per la vita il giorno di Pasqua è stato inserito in una narrazione sbagliata. Non siamo davanti né al fenomeno del changeling, né tantomeno alla potenza del Re della Notte di Game of Thrones che trasforma i neonati in Estranei. Eppure, qualcosa di grave è successo: è stata scavalcata la privacy della madre a favore dell’ennesimo show mediatico. Diamo la colpa alla Pasqua?
Domenica 9 aprile 2023 una donna ha deciso di rinunciare al proprio neonato affidandolo alla Culla per la vita, presidio situato in prossimità dell’ingresso per automobili della Clinica Mangiagalli dell’Ospedale Maggiore Policlinico di Milano. Essendo a conoscenza del servizio, la donna ha compiuto la sua scelta, probabilmente con la speranza di regalare al suo bambino una vita migliore e lo ha fatto con la speranza di non subire ritorsioni mediatiche pericolose e insensibili. Poteva filare tutto liscio, per una volta? Ovviamente no.
Nelle ore successive l’accaduto (intorno alle 11:30 del mattino) la notizia ha iniziato a circolare ovunque: sono stati realizzati servizi su tutti i telegiornali, sono stati diffusi dati che, stando alle “regole” del servizio stesso, sarebbero dovuti rimanere (giustamente, ndr) anonimi ed è stata compiuta la classica spettacolarizzazione di qualcosa che di spettacolo non ne voleva proprio sentire parlare. Non solo è stato rivelato il nome che la madre biologica ha scelto per il piccolo, ma è stato reso noto il colore della tutina, è stata letta la lettera che la donna avrebbe lasciato a fianco del bimbo e sono state fatte ipotesi sulla presunta età di quest’ultima sulla base del linguaggio utilizzato. Un vero e proprio identikit non richiesto e non voluto, soprattutto da lei, che pensava di avere agito in sicurezza e in totale riservatezza.
Non solo violazione della privacy: ci mancava lo show mediatico fatto da personaggi dello spettacolo
Partendo dal presupposto che l’anonimato su cui la Culla per la vita fonda la sua essenza non sia stato affatto rispettato, si sono aggiunti elementi che confermano ancora una volta quanto in Italia il diritto a rinunciare all’essere madre sia qualcosa di illusorio, di effimero, di fittizio, di utopico. Insomma, benché se ne dica, non esiste.
Quando parliamo di “elementi” ci riferiamo a tutta la raffica di messaggi e di servizi televisivi in cui persino personaggi del mondo dello spettacolo hanno voluto dire la loro sul neonato, sul suo futuro e sulla madre che ha scelto volutamente di rinunciarvi. Ezio Greggio, pensando di fare “cosa buona e giusta” si è persino offerto di aiutare economicamente la donna, rafforzando l’idea che sia sempre e solamente a causa di estreme difficoltà economiche che una donna decide di non volere crescere il proprio figlio. Che poi, questa generosa offerta economica, quanto durerebbe nel concreto?
A sconvolgere ulteriormente l’opinione pubblica è stata una delle tante espressioni utilizzate dal conduttore di Striscia rivolgendosi alla madre: «Il tuo bambino merita una mamma vera, non una mamma che poi dovrà occuparsene ma non è la mamma vera. Ci conto tanto». Potete solo immaginare le polemiche, prontamente fermate da Greggio, il quale ha affermato di essersi rivolto a «[…] una madre in difficoltà che ha scelto di abbandonare il suo bambino tanto amato sperando che la sua vita sia meglio di quella che le può offrire lei».
Qualsiasi fosse l’intento del conduttore, è però indubbio che le modalità utilizzate nel parlare della vicenda siano state scorrette e irrispettose nei confronti della donna.
Di questa donna non conosciamo nulla e non abbiamo il diritto di parlare e di pensare per lei
Questo caso ci insegna qualcosa: possiamo essere meglio di così e dobbiamo imparare ancora tanto rispetto ai diritti, alle scelte e al senso della libera scelta. Sebbene le ruote degli esposti non esistano più, l’esposizione è rimasta ed è proprio quella della donna che, per la sua scelta di non volere essere madre e per la sua volontà di dare una vita migliore al figlio, si è trovata nel bel mezzo di un caos mediatico di cui non aveva bisogno. La verità è che noi di quella donna non ne conosciamo la storia, non ne conosciamo il vissuto, le esperienze, i sogni, la famiglia, la situazione economica, quella sanitaria, così come non conosciamo l’identità del padre, che anche in questo caso vive come presenza accessoria all’interno di una narrazione tutta sbagliata.
La Culla per la vita non diceva di garantire il completo anonimato previsto dalla legge, tutelando anche il diritto di “chi genera” a riconoscere o meno un figlio?
La verità è che abbiamo sprecato l’ennesima occasione di fare la cosa giusta e di costruire una narrazione sicura della vicenda. Avremmo potuto informare ancora di più rispetto al servizio, avremmo potuto fare sentire sicure le donne della loro scelta, le avremmo potute accogliere senza giudizio e senza congetture nate sulla base del nulla. Invece no, abbiamo intrapreso la strada più semplice, quella dell’invito all’essere madre per forza, fregandocene dei diritti e delle sensazioni, ma puntando allo spettacolo tipico di chi certe sensazioni non le conosce.
Facciamo attenzione, perché troppo spesso quella che nasce come tutela della vita, si ritorce proprio contro chi, quella vita, ha scelto di affidarla a qualcun altro.
Madre o non madre: questo è il dilemma
La Culla per la vita è stata donata dal Movimento per la vita che, per chi non lo sapesse, è un movimento antiabortista molto attivo negli ospedali d’Italia. Si punta a scoraggiare l’aborto (nel 2022 se ne sono contati circa 44 milioni in tutto il mondo) e a convincere le donne a non interrompere la gravidanza. Convincere, che parola crudele da utilizzare in casi delicati come la gravidanza.
Già da questo capiamo che, volente o nolente, la donna si trova al centro di un bivio: essere madre madre o non essere madre? A quanto pare, qualsiasi sia la risposta, il giudizio è immediato.
Attraverso la Culla per la vita la madre avrebbe sicurezza e tutela garantite, ma avrebbe anche 10 giorni di tempo per “ripensarci”. Dentro la “mission” del servizio, però, si nascondono un paio di obiettivi intrinseci che, per citare le parole della Clinica Mangiagalli, sono:
- Evitare l’abbandono indiscriminato che mette a repentaglio la sopravvivenza del neonato, tutelandolo e assicurandogli il diritto alla vita;
- Prevenire ed evitare risoluzioni estreme che negano il diritto alla vita, tutelando anche il diritto di chi “genera” a riconoscere o meno un figlio.
È un nostro diritto scegliere, ma è un impegno collettivo quello di smettere di associare la donna alla maternità obbligatoria. Piuttosto informiamo e spingiamo le donne ad agire in sicurezza, qualsiasi sia la loro scelta. Certo è che se tale sicurezza viene a mancare proprio da chi dovrebbe garantirla, il cortocircuito è dietro l’angolo.
La sentite la puzza di mala informazione? Sarebbe meglio sganciarsi dai cliché, che il 1300 non è più cosa odierna… forse.