Festeggiare le donne è anche ricordare che 20 giorni fa, a Cortina, Samira non c’era

8 Marzo 2021
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Chissà quali saranno le cause che infiammeranno le attiviste in questa Festa della donna. Ci sarà almeno un cenno a Samira Zargari?

Abbiamo chiesto Giulia Sulis, millennial e attivista dello sport, di spiegarci bene la vicenda di Samira Zargari, classe 1983. È la head coach della squadra femminile di sci alpino iraniana, costretta dal marito a non partecipare ai Mondiali di Cortina.

Una storia di solo venti giorni fa. Che sembra già dimenticata

Il caso di Samira Zargari fa riemergere la storia di Sahar, suicida per il divieto di entrare allo stadio di Teheran per vedere una partita. Che problema ha lo stato iraniano con le donne che vogliono vivere lo sport?

L’impostazione dei divieti di accesso allo sport per le donne iraniane è un’eredità della rivoluzione. Nel 1979 prevalse la fazione khomeinista e furono improntate regole molto rigide. Musica, cinema – come molto tempo dopo faranno i talebani in Afghanistan – vennero proibiti inizialmente per poi abbracciare un cambiamento.

Ma tra le eredità di quel passaggio storico sopravvissute al tempo, rimase e resta tuttora quella legata allo sport, che non deve però trarre in inganno rispetto al suo fondamento. Va sottolineato che non vi è un problema particolare di ordine politico bensì di mantenimento di un retaggio culturale.

Ci sono movimenti che tutelano le atlete e che protestano per le le leggi restrittive contro le donne?

Associazioni, Ong, donne politiche iraniane. Ognuna di queste realtà o persone si sono espresse più volte per cambiare leggi e visioni culturali.

Bisogna tenere a mente un dato: l’Iran ha un sistema costituzionale con un potere di veto importante da parte del Consiglio dei Guardiani della Rivoluzione che può bloccare anche leggi approvate dal Parlamento.

La religione ha sempre l’ultima parola

Secondo lei è un problema culturale diffuso nella popolazione o un eccesso di potere delle autorità religiose?

Lo​ ​sport è da sempre, in ogni dove, un fenomeno popolare. In Iran una parte degli organi costituzionali – l’Assemblea degli Esperti primo tra tutti – è appannaggio di figure religiose molto anziane, che in alcuni ambiti di rilevanza fondamentale, hanno funzioni politiche.

Dopo il caso di Sahar lo stato pare aver capito l’assurdità di certe regole. È così? E che cosa ha fatto per evitare un altro episodio come quello?

Temo che la questione sia più complessa e non determinata unicamente da ciò che possa essere ritenuto assurdo o meno.

Dopotutto in merito al caso Sahar ci fu l’intervento della Fifa a guidare parte dei movimenti intrapresi dall’Iran, movimenti tendenzialmente obbligati, parziali e con un unico fine: evitare la squalifica dalle competizioni internazionali.

Per Samira Zargari nemmeno una petizione su Change

Si è stupita che, nonostante l’indignazione generale e l’intervento alla Camera della deputata Daniela Sbrollini, non sia stata lanciata alcuna petizione su Change. Come invece era avvenuto per Elham Sadat Asghari, la nuotatrice cui nel 14 fu negato dal suo paese, l’Iran, il riconoscimento di un record di una traversata nel Mar Caspio?

Ci sono interessi, persino tra le persone meno esposte mediaticamente, che superano la sensibilità necessaria a dare spazio alla protesta e questo, purtroppo, non mi stupisce più, non tanto quanto la scelta, consapevole e studiata, di lasciare che questo avvenga ogni giorno anche nelle nostre vite e nelle nostre case.

Se si mette nei panni di Samira, secondo lei quali emozioni può provare una donna che vive una vicenda del genere?

Provai a porre una domanda simile a una mia coetanea nata e cresciuta in Iran. Non disse alcuna parola e quando la esortai a farlo sorrise commossa. Fu la risposta più lunga ed impegnativa che ascoltai in tutta la mia vita.

Ha conosciuto o letto di altre donne, non solo iraniane che sono state emarginate in una carriera sportiva?

Ho conosciuto molte donne vittime di emarginazione nel corso di una carriera sportiva o di altro stampo settoriale ma ciò che ha sempre catturato la mia attenzione sono le donne che “ce l’hanno fatta” eppure non mostrano nessuna solidarietà per chi lotta ancora.

L’obiettivo come ci ha ricordato l’attuale ​vicepresidente degli Stati Uniti d’America​, Kamala Harris, non è mai essere la prima – a ottenere un diritto, un ruolo o una possibilità – ma assicurarsi di non essere l’ultima.

Essere emarginate per una norma o per pregiudizio

A lei è mai capitato?

C’è una differenza sostanziale tra imposizione normativa e pregiudizio con relativa limitazione sociale, di libera scelta lavorativa o di espressione. Il fatto che io sia costituzionalmente libera ha un valore inestimabile che non lascia spazio ai “se”.

Ma bisogna fare attenzione a non utilizzare questa libertà sancita su carta come una mera copertura, altrimenti si rischia di poter fare tutto, finché non si prova a farlo e temo che la mia storia e la battaglia che porto avanti per le donne ai vertici del calcio – così come quella di molte altre donne in differenti settori e paesi – ne siano scomodi testimoni.

Quali sono gli sport in cui è più probabile che una donna si trovi a combattere con lo strapotere maschile?

Qualcuno disse che la vita è uno sport di squadra, sulla scia di questa verità e nel calcolo delle probabilità, oserei risponderle, la vita stessa. Una risposta più tecnica vede protagonisti gli sport a maggior impatto mediatico, conseguenza – una tra tante – relativa alla bassa percentuale di donne a capo delle realtà più importanti del pianeta.

Anche la storia di Samira Zargari si è spenta subito. Il Covid ormai ha il monopolio della comunicazione. Assieme a tutti i mali del virus c’è anche il calo di sensibilità verso i diritti delle donne nello sport?

Chi davvero combatteva per le donne sta continuando a farlo. Economia, politica, benessere psicofisico, editoria, i diritti delle donne tremano in più settori di quanti ne possiamo immaginare.

Durante l’intera pandemia, sul panorama italiano, donne come Michela Murgia, Vanessa Villa, Imen Jane, Federica Vinci, hanno continuato ad aiutare altre donne attraverso la loro opera messa a disposizione di tutti, tra azioni e pensieri espressi senza timore o lottando per se stesse, rivelandoci quanto siano ancora molti e disparati i settori in cui siamo costrette a farlo.

L’attenzione totalitaria verso il virus è abbracciata solo da chi sceglie consapevolmente di chiudere un occhio su pandemie retrograde di genere culturale, ma ci regala una visione della realtà rivelatrice che finalmente ci aiuta a determinare una distinzione tra chi si batte per le donne da sempre e chi non lo farà mai.

Facciamo largo al Brand Activism

Molti brand accolgono nelle loro campagne pubblicitarie le tematiche di genere, il body shaming, il diritto a una libertà dagli stereotipi esistenti tra uomini e donne. Secondo lei possono fare di più?

Posto in essere che si possa fare di più a livello di brand activism, la mia domanda è: c’è qualcuno disposto a farlo? Ogni donna ha una storia e una voce per raccontarla. Ma finchè verranno preferite solo le storie a lieto fine o dal certo esito di ritorno economico, preoccupandosi del calcolo del rischio senza fare una scelta onesta in termini di purpose e comunicazione, chi si occuperà di quelle scomode? Perché stanno diventando tante ed è arrivato il momento di farlo.

Quali potrebbero essere secondo lei le missioni dirompenti per sollevare il velo su questo problema?

La missione più dirompente che ognuno di noi può mettere in atto è quella di individuare un problema e non fermarsi finché non sia risolto. Ciò che ripeto sempre a me stessa è di avere coraggio e come diceva Virginia Woolf, andare oltre il coraggio stesso, lì dove ci è negato o lo ritenessimo necessario.

Credo fermamente che in relazione alla lotta contro la discriminazione di genere, la valutazione relativa all’essere audaci rispetto al tempo debba essere perentoria per tutti ed unita in un unico credo: esserlo sempre e a ogni costo.

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