«Se la compagnia per cui lavori ti paga un salario minimo, dovrà essere minimo lo sforzo con cui affronti le tue mansioni».
Con questa frase di Sarai Soto si può riassumere al meglio il concetto di Act your wage, il nuovo atteggiamento lavorativo che molti Millennial americani stanno facendo proprio per rispondere alla crescente inflazione, a cui spesso non è corrisposto un aumento dei salari. La dicotomia minimum wage/minimum effort, che sta spopolando su TikTok, può tradursi in italiano con un «Perché dovrei farmi tutto questo sbatti se vengo pagato una miseria?»
POV: Veronica mette in atto l’Act your wage
Il concetto di Act your wage è nato da una serie di video di Sarai Soto che sono andati virali tra i Millennial e i Gen Z. Sul suo profilo @saraisthreads, la Content Creator immagina diversi POV (aka point of view, per i Boomer che ancora si ostinano a non usare TikTok) in cui un personaggio di nome Veronica risponde al proprio capo, Susan, rifiutandosi di lavorare oltre orario o di compiere mansioni che sarebbero adatte a due persone: «Con tutto rispetto, Susan, preferisco passare del tempo con la mia famiglia».
Quello di Veronica è di certo un caso esasperato, ma permette di riflettere su alcuni aspetti di un ambiente lavorativo tossico. Innanzitutto, il trend Act your wage si oppone alla hustle culture, lo stile di vita che mette al centro dell’esistenza delle persone il loro impiego. Questa cultura del lavoro, dannosa per la salute mentale, è stata criticata in Italia da Maura Gancitano e Andrea Colamedici, che nel libro La società della performance scardinano il mito della produttività h24. Contro la mentalità comune che ci chiede di essere continuamente reperibili, l’Act your wage stabilisce dei confini tra ciò che un datore di lavoro può chiedere o no al suo dipendente.
Altri Tiktoker hanno preso ispirazione dai video di Sarai Sono, ripetendo il trend in diversi contesti di lavoro. Louise Douglas, ad esempio, mostra degli sketch in cui risponde per le rime a dei clienti maleducati, oppure oppone resistenza alla richiesta del suo capo di arrivare in negozio alle 10:10, pur dovendo iniziare a lavorare alle 11:00. «La politica della compagnia è che tu arrivi 50 minuti prima dell’inizio del tuo turno», cerca di dirle il datore di lavoro. «E la mia politica», ribatte Louise, «è essere pagata per il tempo in cui sono qui».
Le critiche all’Act your wage: «Controproducente per una carriera a lungo termine»
Non tutti, però, sono d’accordo con questa nuova filosofia del non fare mai più lavoro di quello per cui si è pagati. Jack Kelly ci espone la sua lunga paternale su Forbes, affermando che fare il minimo indispensabile e dire costantemente di “no” al proprio capo rischia di essere dannoso per una carriera a lungo termine. Il pericolo, infatti, è che il datore di lavoro si infastidisca e ricorra al licenziamento. «Invece di lasciarti prendere da questa mentalità del dare e ricevere», consiglia Jack Kelly, «rompi gli schemi. Stai sprecando tempo prezioso facendo un lavoro che odi. Determina cosa vuoi fare della tua vita lavorativa. Pensa a quale tipo di lavoro o carriera ti renderebbe felice e può offrire un compenso più che equo».
Contro le critiche che le sono state mosse, Satai Soto ha risposto che l’Act your wage non è boicottare il lavoro per essere licenziati. Il trend può essere infatti praticato anche da chi ama la propria mansione, ma non vuole essere sfruttato dal proprio capo, rischiando di raggiungere il burnout. «Seguire la descrizione del proprio lavoro non dovrebbe essere considerato il minimo indispensabile», ha dichiarato Wendy Syfret, autrice del libro The Sunny Nihilist. Secondo Syfret, la filosofia Act your wage non crea dipendenti pigri e svogliati, ma persone capaci di «creare le giuste barriere all’interno del proprio lavoro» per poterlo svolgere al meglio, senza tralasciare amici, famiglia e salute mentale in attesa di un’ipotetica promozione.
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