Il conflitto generazionale tra baby boomer e millennial si fa più aspro se la partita si gioca nel mondo del lavoro. Che le due generazioni, quella nata nel pieno del boom economico e quella nata agli inizi degli Anni 90, avessero difficoltà a convivere si era ormai capito: i primi accusano i giovani di essere pigri e mammoni; i secondi accusano i genitori di aver avvelenato il pianeta e di aver prodotto una classe dirigente inadeguata a gestire la società digitale.
Ma è in ufficio che volano computer e scrivanie. Secondo un articolo pubblicato dal quotidiano britannico DailyMail, si ritiene che circa un quarto dei boomer abbia completamente “perso il contatto” con i lavoratori più giovani. Secondo il sondaggio, quasi la metà degli impiegati (il 40%) afferma di essere in disaccordo con i millennial sulle pratiche lavorative. E le cose sono peggiorate soprattutto dopo la pandemia.
Le ragioni principali del conflitto generazionale nel mondo del lavoro
Millennial e boomer si trovano in disaccordo su molti temi, persino sulla quantità di mail da gestire e sulle modalità delle riunioni online, ma i principali riguardano la ricerca di un equilibrio tra vita lavorativa e privata, pendolarismo e salute mentale. E i ricercatori stanno scoprendo nuove forme di conflitti che prima non esistevano.
Anche la generazione Z, quella dei nuovi maggiorenni che hanno appena iniziato a lavorare, non riesce a trovare un punto d’incontro con i colleghi più grandi. Non concepiscono il concetto di “portare a termine il lavoro a tutti i costi”, il classico schema 9-to-5 è spesso visto come obsoleto e privo di senso. Non solo, i millennial e i giovanissimi sono meno fedeli al posto di lavoro rispetto ai baby boomer: se per la generazione dei genitori era naturale trovarsi un impiego e portarlo avanti fino al pensionamento, per le nuove generazioni sembra la realizzazione di un incubo.
Il mondo globalizzato e interconnesso offre possibilità senza precedenti, per questo motivo la permanenza media presso una azienda diminuisce sempre di più, tanto che la media si aggira intorno ai due anni, e il fenomeno ha già ricevuto l’etichetta di job hopping. La pandemia è stata comunque uno spartiacque, nonostante le incertezze sul futuro e la precarietà economica, il numero di dimissioni volontarie presentate dai giovani ha raggiunto numeri senza precedenti.
La pandemia e la rivoluzione del digitale
Perché alzarsi la mattina alle otto, prendere la macchina (o peggio, i mezzi pubblici) trascinarsi in ufficio per un meeting quando esistono piattaforme come Zoom? Il lavoro online durante la pandemia ha funzionato, e sempre più spesso i giovani mettono in dubbio l’abbandono dello smart-working, più flessibile, più “nomade”, e volendo anche più ecologico (valori chiave che piacciono alle nuove generazioni).
Secondo il sondaggio condotto da QualticsXM, il 10% dei giovani intervistati ha affermato che sarebbe pronto ad abbandonare il lavoro se fosse costretto a tornare in ufficio full time. Negli annunci online, inserire la possibilità di “vivere e lavorare da ovunque” aumenta la possibilità di trovare nuovi impiegati, l’80% dei lavoratori crede che la mobilità flessibile sia un nuovo requisito per valutare la qualità del posto di lavoro.
“La pandemia è stata lunga, difficile e devastante – si legge nell’articolo – ma ha anche dato l’opportunità di riflettere e sperimentare nuovi modi organizzativi, che altrimenti non sarebbero mai stati presi in considerazione”. La chiave, ancora una volta, risiede nella capacità di dialogare: “Si possono creare esperienze migliori ascoltando continuamente i propri dipendenti, agire in base ai feedback che si ricevono e lavorare insieme sul futuro”.