Onboarding, ovvero l’arte di trasformare una cavalletta millennial in un dipendente fidato
Per chi, appena seduto in un nuovo posto di lavoro, sta già cercando di andarsene c’è la strategia aziendale dell’onboarding
L’onboarding serve a contrastare una delle caratteristiche più perniciose dei millennial: il job hopping, ovvero il passare (troppo) di frequente da un lavoro all’altro.
Questo può succedere per ragioni e interessi personali, come una crescita nello stipendio o nella carriera. Da uno studio di Keith Ferrazzi, pubblicato su Harvard Business Review, emerge che negli USA il 33% dei neoassunti in posizioni manageriali si attiva per cercare un lavoro entro i primi 6 mesi e il 22% lascia l’impresa entro il primo anno dall’ingresso.
Ma qual è il ruolo dell’azienda nel rito dell’onboarding?
Se all’inizio si dava molta responsabilità al processo di ricerca e selezione, oggi l’attenzione è tutta per il primissimo momento di inserimento della persona in azienda.
Nei primi 3 mesi ci si gioca tutto
Daniel Cable, Chair della Faculty di Organizational Behavior alla London Business School, sostiene che il futuro della relazione individuo-organizzazione si gioca in buona parte nei primi 3 mesi.
Il processo di onboarding, inteso come attenzione alla persona non solo durante il primo giorno, ma nel lungo periodo, acquista un ruolo fondamentale.
I primi novanta giorni risultano quindi il momento più importante per la nuova risorsa che deve apprendere a vivere nel nuovo contesto in cui si trova. Deve cioè trovare la risposta a domande come: mi piace l’ambiente in cui sono? Condivido i valori aziendali? E l’azienda deve fare la sua parte.
Chi più di tutti deve impegnarsi nell’onboarding è il capo diretto (o tutor di riferimento) della persona e, tra le cose che può fare, ci sono dei riti importanti come la presentazione del nuovo arrivato ai colleghi, dedicargli un momento particolare alla lettura e alla firma del contratto, accompagnare la persona alla propria postazione.
Altro elemento che crea engagement è il welcome kit, ovvero il kit di benvenuto. Consiste in un insieme di oggetti (in America è abitudine consegnare la tazza del brand) che diventano una vera e propria pratica propiziatoria di benvenuto. Molto funzionale al trasmettere alla persona l’idea che la si stava aspettando.
Pranzi e aperitivi di benvenuto sono altrettanto importanti e utili nella pratica dell’onboarding. Anche per creare relazioni al di fuori dell’orario lavorativo, quando il tema della conversazione può svincolarsi dalla to do list.
La componente relazionale, resta l’elemento centrale che l’azienda deve sfruttare per creare engagement nei confronti dei talenti che si vogliono tenere a bordo!
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