Per dare il massimo basta lavorare 4 ore al giorno. Però ti daranno del fancazzista, sappilo

20 Dicembre 2017
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Per gli standard odierni, Charles Darwin e Charles Dickens erano fancazzisti in piena regola. Eppure…

Un presupposto fondamentale che guida il pervasivo culto della produttività dei millennial tecnologi è che più ore lavorate, più il lavoro sarà ben fatto. Sembra una formula abbastanza logica, ma sta portando a un’epidemia di esaurimento indotto dal lavoro che ci rende tutti ingastriti. E che ci dona un incarnato da zombie. “Faccio cose, vedo gente e sono perennemente occupato” è diventato lo status symbol del 21 ° secolo. La possibilità di lavorare 4 ore al giorno o comunque meno delle 35 ore settimanali medie (che sono più di 50 per i millennial più workaholici) è solitamente un privilegio. Riservato al millennial furbino o agiato di famiglia o ribelle di natura. Il rischio è: essere etichettati come Fancazzisti.

Ma, finalmente, ecco l’esordio del movimento anti workaholism che dice quello che tutti sappiamo: una maggiore produttività può essere associata a meno ore di lavoro. Il problema prima o poi doveva saltar fuori: nessuno sa esattamente che cosa succede nei coloratissimi uffici della Silicon Valley. Di certo sappiamo che chi ci lavora non passa le giornate a giocare a ping pong dentro finte sale ludiche. Così qualcuno deve aver chiamato un consulente anti-stress. Ora, potrebbe essere anche un antisociale affiliato ad Anonymous ma più probabilmente invece è uno che studia bene il problema: Alex Soojung-Kim Pang analizza la giornata lavorativa di quattro ore. E conclude: «Decenni di ricerca dimostrano che la correlazione tra il numero di ore lavorate e la produttività è molto debole». In quanto studioso di Stanford e fondatore della Restful Company dobbiamo, ma soprattutto vogliamo, credergli.

Uno studio dell’Illinois Institute of Technology negli anni Cinquanta ha dimostrato che gli scienziati che trascorrevano 25 ore alla settimana sul posto di lavoro non erano più produttivi di quelli che ci stavano cinque ore. Gli scienziati che lavoravano 35 ore alla settimana erano la metà produttivi dei loro colleghi da 20 ore settimanali, mentre i lavoratori che impiegavano 60 ore o più erano i meno produttivi di tutti.

Se fai il lavoro di Pang devi avere coraggio. Voglio vederti andare dai manager e dagli imprenditori a dirgli che il superlavoro non serve. E allora ecco scodellato il modello vincente: «Alcune aziende, tra cui Tower Paddle Board e molte imprese in Scandinavia, hanno scoperto che le loro attività sono cresciute e la soddisfazione dei dipendenti è aumentata dopo il taglio delle ore di lavoro dei dipendenti».

Ok, ma la Scandinavia… è sempre un caso virtuoso, dal riciclo dei rifiuti alle prigioni umane non c’è “cosa sociale” che non facciano da secchioni maledetti. E allora ecco Pang attingere alla storia della scienza e della filosofia: all’ora di pranzo facevano cadere la penna, sti disgraziati pensatori. Però erano dei geni: «Quando si esaminano le vite delle figure più creative della storia, si è vede che organizzavano le loro vite attorno al loro lavoro, non intorno ai loro giorni», scrive Pang.

Per gli standard odierni, artisti come Charles Darwin e lo scrittore Charles Dickens erano dei fancazzisti in piena regola: lavoravano solo da quattro a cinque ore al giorno. Così hanno fatto gli autori Alice Munro, Gabriel Garcia Marquez, W. Somerset Maugham, Anthony Trollope e Peter Carey, lo scienziato John Lubbock, il regista Ingmar Bergman, l’artista Arthur Koestler, e il matematico Henri Poincare. Le ore in cui questi luminari trascorrevano nel riposo intenzionale, sostiene Pang, erano importanti per il loro lavoro quanto il tempo trascorso effettivamente a lavorare. «Quando ci fermiamo e riposiamo correttamente, non stiamo pagando una tassa sulla creatività», scrive, «stiamo investendo in esso».

Ecco dunque cinque scrittori, matematici e scienziati che potrebbero incoraggiarci a lasciare il lavoro presto e riposarci, sempre che si riesca a convincere il proprio capo.

Charles Darwin

In 73 anni di vita, il naturalista britannico Charles Darwin è riuscito a pubblicare 19 libri, da una monografia sui cirripedi a L’origine delle specie, che è forse il volume più influente nella storia della scienza. Il tempo trascorso da Darwin nel lavoro scientifico – teorizzazione, scrittura e sperimentazione – consisteva solitamente in soli tre fasi di 90 minuti al giorno. Dopo una passeggiata mattutina e una colazione, Darwin lavorava nel suo studio dalle 8:00 alle 9:30, a quel punto si prendeva una pausa per leggere, scrivere lettere e ascoltare un romanzo che qualcuno gli leggeva ad alta voce. Alle 10:30 del mattino, sarebbe tornato agli esperimenti di cambio di paradigma nella sua voliera. A mezzogiorno si accorgeva di aver lavorato bene e a sufficienza e andava a passeggiare sulla Sandwalk, un sentiero vicino alla sua casa di Down, vicino a Londra. Dopo pranzo, un pisolino di un’ora, poi un’altra passeggiata, poi di nuovo nello studio dalle 16:00 alle 17:30. La serata si concludeva a cena con la sua famiglia. «Se Darwin fosse stato professore in un’università, oggi, gli sarebbe negato il mandato», scrive Pang. «Se avesse lavorato in una azienda, sarebbe stato licenziato nel giro di una settimana».

Godfrey Harold Hardy

G.H. Hardy è stato uno dei principali matematici britannici del XX secolo ed era solito lavorare 4 ore al giorno. Iniziava la giornata con una lettura attenta dei risultati del Cricket durante la colazione, quindi si concentrava sulla matematica dalle 9:00 alle 13:00. Il tennis e le lunghe passeggiate riempivano i suoi pomeriggi: «Quattro ore di lavoro creativo al giorno sono il limite massimo per un matematico», disse una volta Hardy al suo collega professore di Oxford C.P. Neve.

Charles Dickens

Dopo un periodo da nottambulo impenitente, Charles Dickens adottò uno stile di vita molto rigido: «Divenne metodico e ordinato come un impiegato di città», disse il figlio Charley. Dalle 9 alle 14, scriveva in assoluta tranquillità, e dopo il pranzo faceva la pennicchella. Dopo cinque ore, Dickens aveva finito la sua giornata lavorativa.

Thomas Mann

L’autore dei Buddenbrooks Thomas Mann, dall’età di 35 anni, iniziò a chiudersi quotidianamente nel suo ufficio dalle 9 di mattina fino all’ora di pranzo per lavorare ai suoi romanzi. Poi basta: «I pomeriggi sono per la lettura, per la mia corrispondenza troppo montagnosa e per le passeggiate», confessava Mann. Dopo un pisolino pomeridiano e un tè alle 5, trascorreva un’altra ora o due a lavorare.

Edna O’Brien

In un’intervista del 1984 con The Paris Review, la scrittrice irlandese Edna O’Brien raccontò il suo piano di scrittura che si basava sul concetto di lavorare 4 ore al giorno: «Mi alzo la mattina, prendo una tazza di tè e vengo in questa stanza per lavorare. Non esco mai a pranzo, mai, ma mi fermo intorno all’una e trascorro il resto del pomeriggio dedicandomi a cose banali. La sera leggo o vado a vedere un film, o, al limite, dai miei figli».

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