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C’è almeno una ragione vera se i millennial si licenziano prima degli altri

8 Ottobre 2020
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Perché per un manager i millennial sono i lavoratori più difficili da accontentare nonostante il mercato non offra loro molte alternative?

Facile, perché sono i primi a mollare un lavoro quando non percepiscono più quel benessere sperato o, addirittura, promesso dall’azienda. Insieme ai centennial, i millennial sono davanti a tutti gli altri colleghi quando di fare una passo indietro si tratta, se le condizioni non rispecchiano le attese. Al di là di quanto queste possano essere idealizzate.

Un dato confermato da una recentissima ricerca di Bva Doxa per Mindwork. Uno studio che si è concentrato proprio sul benessere psicologico dei lavoratori, in particolare alla luce dell’emergenza sanitaria planetaria in corso e del conseguente lockdown. E in vista del 10 ottobre, giornata mondiale della salute mentale (Mental Health Day).

Una fotografia apparentemente inedita che, però, non sorprende i membri della comunità ‘Y’ abituati come sono a cercare empatia e giuste vibrazioni ovunque. Anche in quella che per molti altri potrebbe essere definita ‘solo’ un’occupazione. In particolare per gli under 35 il lavoro non ha mai l’obiettivo unico ed esclusivo di procacciare uno stipendio.

I soldi per questa generazione povera ma colta e dotata di un’elevata sensibilità a livello umano, quando i social e le tecnologie lo permettono, non sono tutto. «I ragazzi – spiega Luca Mazzucchelli, psicanalista e direttore scientifico di Mindwork – non seguono più i capi perché la loro leadership si basa sempre più sulla retribuzione economica ma non basta».

«C’è la retribuzione intangibile – spiega Mazzucchelli – che non viene più considerata ma il leader dovrebbe mettere al centro la persona prima del lavoratore. Se manca questo aspetto, il dipendente sarà sempre vuoto. Perché non si sente al centro». Il malessere percepito dai lavoratori nelle aziende in Italia, tuttavia, riguarda in qualche misura le persone di tutte le età, genere e ruolo.

Secondo i dati presentati da Massimo Sumberesi – per Bva Doxa – tre su quattro lavoratori intervistati percepiscono stress e ansia nello svolgere il proprio impiego. Questa situazione genera un circolo vizioso e nocivo di emozioni negative legate al lavoro. Preoccupazioni che poi si traducono in stanchezza psicofisica. Quattro persone su dieci, addirittura, hanno detto di soffrire dei disturbi di salute riconducibili proprio al malessere in azienda.

A quanto pare l’incidenza maggiore in questo senso arriva come è ovvio che sia dal rapporto con i colleghi e con i superiori. Ma il malessere dipende anche dai carichi di lavoro eccessivi e dalle scadenze sempre più brevi. Incide pure l’assenza di feedback positivi, i lavoratori hanno un ego che desidera la sua parte e, quindi, vogliono sentirsi apprezzati.

Così come un altro fattore determinante è la difficoltà a mantenere i giusti equilibri tra vita privata e lavoro. Basti pensare che solo il 35% degli intervistati ha riconosciuto nella propria quotidianità un giusto bilancio tra vita privata e vita professionale. Il 44% pensa invece che gli equilibri siano spostati verso le attività in azienda mentre il 21% la vede in maniera opposta.

Questo malessere psicofisico di solito emerge e si fa sentire. Un primo campanello d’allarme è quello dell’assenteismo. Scelta operata dal 29% dei lavoratori e attenzione perché la tentazione di bigiare la giornata lavorativa, stando ai dati forniti, colpisce soprattutto i dirigenti, spesso sottoposti a carichi di stress maggiori.

Un altro segnale infine, quello definitivo, è il dire addio all’azienda. Ben il 37% dei lavoratori preferisce licenziarsi anziché restare in un posto dove non percepisce benessere. Al di là dello stipendio o dei premi in denaro. E qui arriviamo al punto iniziale: questo trend vede protagonisti soprattutto gli under 35, millennial e post millennial.

«Le nuove generazioni – conferma il co-founder e ceo di Mindwork, Mario Alessandra – sono molto più sensibili al tema psicologico. Parlano nella vita privata in modo più aperto dei loro problemi. Si aspettano che anche in azienda ci sia una cultura all’ascolto simile. Se non trovano questo clima, vanno via».

I millennial dunque decidono: tagliano o ricuciono, a seconda delle condizioni. Un po’ perché appartengono a quella generazione cresciuta su a gallette di riso, avocado, flessibilità, prodotti bio e senso estremo della ricerca del benessere fisico e mentale. Un altro po’ perché l’età gioca a loro favore. Hanno praterie di decenni davanti e quindi impugnano il futuro dalla parte del manico.

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