Millennial e GenZ via Tik Tok boicottano i grandi marchi e vanno nei piccoli negozi
Grande distribuzione on e offline e brand multinazionali sono sotto accusa dei 25-30 enni americani. Che cosa pensano e vogliono, esattamente?
Mentre i loro genitori si trastullano con le risse su Facebook e le pose su Instagram, avanza un plotone di GenZer e Zennial (nati nei Novanta) che usa i social per mettere in difficoltà l’economia globalista. E che per farlo usa Tik Tok.
Ora, tutti hanno ben chiaro ormai che le grandi piattaforme sono predatorie, generano grandi ricavi basati sul lavoro precario. Ma il motivo della protesta non è più soltanto economico. Ora la molla che fa imbestialire i 25-30enni è la politica.
Business Insider racconta la storia di Jane Long, 33 anni e 700 dollari ogni due settimane in generi alimentari. Fino a poco tempo fa li spendeva da Walmart, il principe della GDO americana.
Poi però, dopo che la Corte Suprema ha annullato il diritto costituzionale all’aborto Long ha vissuto la protesta dei tiktoker contro i brand che finanziano i politici retrogradi e ha scelto di andare a fare acquisti solo nei piccoli store locali.
Long è convinta che se tutti smettessero di comprare dai marchi che finanziano i politici che poi tradiscono gli elettori, la diminuzione dei profitti spingerebbe i marchi a rinunciare a queste forme di finanziamento. Causando un vero cambiamento sociale.
Questa generazione ha capito più delle altre (e grazie a i social) che la gestione del loro portafogli è un’arma più utile di ogni associazione di consumatori.
Dalle proteste su Tik Tok alle analisi universitarie
I boicottaggi di questo tipo infatti si moltiplicano. Ma soprattutto sembrano efficaci al punto da spaventare le aziende. Lo scrive anche Caroline Heldman, presidente dell’Occidental College e autrice di un libro dirompente sul tema.
Scrive Heldman: «Le principali società ora danno per scontato che la minaccia di potenziali boicottaggi esista e sia in crescita. E questo fa sì che che le spese di marketing dedicate alla reputazione non siano mai state così alte».
Un dato che dovrebbe fare riflettere gli imprenditori italiani, spesso così poco lungimiranti da azzerare le spese di comunicazione causa pandemia e guerra. Come se i consumatori Genzer e Millennial fossero sempre fedeli al marchio indipendentemente dai messaggi che manda.
La lezione per le grandi catene europee è chiara: siete sempre sotto osservazione, e sui social comunque si parla di voi, che voi partecipiate o meno alla conversazione.
La Heldman parla oggi di intere divisioni di strateghi assoldate per arginare la minaccia: per la maggior parte della storia degli Stati Uniti, le aziende hanno potuto stare lontane dalla politica, pur finanziandola in qualche modo, perché potevano.
Oggi c’è molta più pressione del pubblico. I consumatori vogliono prese di posizione politiche. Vogliono che i loro lovebrand siano dalla loro parte, non da quella dei potenti.
La guerra delle censure tra Cina e Occidente
Perché, in effetti, è avvenuto. Indagini e inchieste giornalistiche svelano in maniera crescente che aziende come Walmart, Amazon e AT&T, hanno versato centinaia di migliaia di dollari a legislatori responsabili di leggi che turbano l’opinione pubblica e innescano violente proteste.
È evidente che il tema ha mille sfumature, ma non se ne esce facilmente in un mercato globalizzato composto da trentenni globalizzati. Nel caso della legge sull’aborto i finanziatori di chi ha fatto passare la legge non hanno potuto minimamente arginare la protesta. Anche perché si è diffusa grazie a Tik Tok piattaforma cinese e nemica numero uno della Silicon Valley.
Challenge di solidarietà tra cittadini di stati diversi, offerte di ospitalità per recarsi nelle città dove l’aborto è ancora un diritto, consulenze mediche gratuite hanno sconvolto ogni previsione della “censura” americana.
È una situazione in cui non ci sono piattaforme buone o cattive, ma soltanto largamente opportuniste. Così se un artista cinese perseguitato come Ai Weiwei non sarà mai su Tik Tok ma su Instagram sì, la libertà di opinione è sempre filtrata anche nei social occidentali affinché non destabilizzi troppo chi governa.
Socialismo digitale vs capitalismo predatorio
Nelle democrazie occidentali la legittimazione delle elezioni è in costante calo, ma la sensibilità politica invece aumenta sui social anche in modo violento. E tornano formule ideologiche che avevamo dimenticato e che indicano nel capitalismo esasperato la causa dei mali delle nuove generazioni.
I marchi sono in ballo e devono ballare, la loro indifferenza può diventare la loro fine. Stanno tra le influencer russe che sminuzzano le loro Chanel per protesta antioccidentale e stuoli di ragazzi che coltivano le verdure nel loro orto, vanno a comprare nei vecchi negozietti che erano sull’orlo del fallimento, per fare un dispetto alla Gdo.
Le proteste su Tik Tok si possono fermare con tecniche di persuasione social?
No. E quali possono essere le soluzioni? Le divisioni del “lato oscuro della forza vendita” ce la faranno a estirpare la minaccia? Difficile se l’impostazione continua essere quella dei persuasori occulti che manipolano o “comprano” il pubblico con le loro iniziative. L’opacità non sarà tollerata sulle relazioni tra politica e affari.
È sempre possibile che questi player trovino modi criptati per continuare a fare lobby, ma tutto fa pensare che ci sia piuttosto un attendismo, giocando con vecchie tattiche fino a quando la legge del prezzo più basso faccia cambiare idea ai ribelli.
Eppure questa invece potrebbe essere la grande chiave di volta per una vera digitalizzazione soprattutto in italia, dove i distretti e i centri storici hanno ancora storie da raccontare. E per il territorio, in grado di moltiplicare la propria forza grazie a quella teoria del “Piccolo è bello” che infiammò gli anni Settanta.
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