Anche durante un’annata sportiva devastata dalla pandemia, l’NBA si è confermata un modello che sa sempre coniugare al meglio business, sport professionistico ed intrattenimento, coinvolgendo come sempre millennial di ogni parte del mondo, un’autentica comunità globale come ce ne sono poche al mondo.
La National Basketball Association non ha perso tempo: l’11 marzo ha sospeso tutto a tempo indeterminato appena è stata rilevata la prima positività al Coronavirus. A fine luglio la lega è ripartita con le ultime partite della stagione regolare e i playoff, che si sono conclusi nella notte tra domenica 12 e lunedì 13 ottobre con la vittoria del Los Angeles Lakers di Lebron James e Anthony Davis.
NBA isolata dal mondo ma non assente
Tutto concentrato nel Disney World Resort in Florida, ribattezzata universalmente la bolla di Orlando, dove tutto ha funzionato alla perfezione, anche perché nessuna violazione del rigorosissimo protocollo era ammessa, come dimostra il caso di Danuel House Jr, cacciato dalla bolla per aver ospitato una persona (una groupie?) non autorizzata nella sua stanza d’albergo per diverse ore nella notte tra l’8 e il 9 settembre.
Rigorosamente isolati dal resto del mondo ma non per questo assenti quando si è trattato di schierarsi per il movimento Black Lives Matters: non soltanto indossando t-shirt a tema e personalizzando le proprie divise di gioco, ma anche fermandosi e rifiutandosi scendere in campo il 26 agosto, per dare ancor più sostanza e solidarietà alle proteste della comunità afroamericane per le violenze e le vessazioni subite.
Perché l’NBA funziona e il calcio no?
Tutto è stato organizzato alla perfezione e per l’ennesima volta ci si chiede perché le altre leghe professionistiche non prendano esempio dall’NBA, che non è arrivata dove è arrivata dall’oggi al domani, ma con un lungo percorso iniziato negli anni ottanta. L’NBA può permettersi il suo sistema perché ragiona su scala globale, non ha le retrocessioni come i campionati nazionali nel resto del mondo, con il salary cap evita che ogni franchigia possa spendere per gli ingaggi dei propri atleti come se non ci fosse un domani, ha un sistema delle scelte dei giocatori provenienti dalle università che tende ad equilibrare i roster e non ha le competizioni per le nazionali che ne condizionano il calendario.
Il cosiddetto Dream Team – la nazione di basket statunitense con il meglio della NBA – si rende disponibile soltanto in estate per Olimpiadi e in parte per Mondiali, due appuntamenti ogni quattro anni. Tutto questo senza dimenticare che i team americani non si perdono in beghe da pollaio come le società della nostra Serie A. L’unico campionato in grado di ragionare con queste dinamiche è forse la Premier League inglese di calcio, così come la Champions League sempre di calcio è l’unico brand che potenzialmente potrebbe competere con l’NBA, come si evince dalla classifica World’s 50 Most Marketable Properties curata dalla rivista SportsPro.
La SuperLega di calcio sarebbe come l’NBA
Questo è il futuro che ci aspetta: una SuperLega europea di calcio, con le migliori squadre del vecchio continente che si affrontano in un vero campionato transnazionale con tanto di stagione regolare e playoff. Se ne parla da anni, lo scorso se n’è discusso a Londra durante il summit Leaders Week, che ha coinvolto tutti i più importanti stakeholders del calcio europeo, con in prima fila Andrea Agnelli, Presidente della Juventus e dell’ECA, l’European Club Association.
E basti pensare alle cifre che girano: con i diritti tv la Premier League raggiunge ricavi per quasi 3 miliardi di euro, la Serie A si aggira intorno al miliardo, stime che ovviamente saranno inficiate dall’emergenza covid. E proprio in questi giorni si stanno discutendo il rinnovo dei diritti tv italiani per la Champions League per il triennio 2021/24, con il possibile ingresso in campo di Amazon e con Dazn che potrebbe entrare in gioco, così come Sky, detentrice dei diritti per le ultime tre stagioni, compresa quella in corso, farà sicuramente in modo di avere la sua parte.
I millennial amano i video brevi e on demand
La tendenza è quella di spacchettare tutto, in modo che l’utente sia obbligato ad abbonarsi a più piattaforme possibili, tenendo presente che l’utenza millennial tende più a consumare contenuti on demand, possibilmente di breve durata, ovvero più highlights che intere partite, per tacere della crescita esponenziale degli eSports. Una recente ricerca Nielsen ha certificato come in un anno la fanbase italiana sia cresciuta del 20% (1.400.000 in totale), mentre i cosiddetti avid fan – gli appassionati più accaniti e in grado di saltabeccare su più multipiattaforme – sono risultati 466.000 (+33% rispetto allo scorso anno), dati presenti in ogni dettaglio sul sito di IDEA – Italian Interactive Digital Entertainment Association.
Gli scenari futuri non potranno non considerare come il mondo stia cambiando alla velocità della luce: in una realtà non necessariamente distopica gli appassionati di sport potrebbero preferire sfidarsi nei videogiochi o assistere a queste competizioni, invece di accontentarsi di una noiosa partita di Serie A, giocata in stadi fatiscenti, molto spesso con le tribune desolatamente vuote ancor prima che il lockdown impedisse ai tifosi di andare a vedere le partite.
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