Ciclismo.
Il ciclismo è uno sport del popolo. Forse l’unico, sicuramente il più autentico. I campioni pedalano e corrono letteralmente tra la gente, senza distinzione di classe sociale. Non esistono settori vip, né molto meno palchetti esclusivi da prenotare a suon di quattrini per godere dello spettacolo. Il parterre è per tutti. Uomini, donne, boomer, millennial, ricchi, poveri, appassionati o semplici passanti. Il passaggio della carovana spoglia i tifosi dalle loro maschere sociali. Almeno per un attimo.
Anche i ciclisti, di fronte alla fatica, sono tutti uguali. Dal primo all’ultimo, ciascuno percorre la medesima distanza che separa la linea di partenza, l’inizio di tutto, da quella di arrivo, la fine di ogni velleità di vittoria. Eppure le storie dei ciclisti sono una galassia multiforme di aneddoti. In Colombia, per esempio, molti grandi campioni sui pedali sono nati lontano dalle grande città, nei pueblos in mezzo ai campi. Il ciclismo è uno sport della terra, è contadino.
La foto di Egan Bernal al termine della tappa 11 del Giro d’Italia, quella in mezzo alle strade bianche tra i vigneti senesi della Toscana, mi riporta in mente il volto sporco di polvere e fango dei contadini al termine di una giornata nei campi. Magari proprio i suoi concittadini di Zipaquirà. Le labbra secche e quasi spaccate per la violenza dell’aridità. Il naso spigoloso a riempire quel viso allungato. Lo sguardo sereno di chi sa di aver fatto del suo meglio.
E poi quel rosa della maglia e del casco e l’occhio curioso di una telecamera che riprende l’uomo del giorno. Forse del Giro, ma si dovrà ancora vedere. Quell’obiettivo digitale puntato addosso che è ancora un nuovo monito: il Giro è di tutti e per tutti. Non solo degli italiani e non solo dei ciclisti. Bernal rappresenta sé stesso. Bernal è anche espressione del suo popolo. Quella Colombia dove da quasi un mese si sciopera. Dove da quasi un mese uomini e donne sono giù per le strade e pedalano a modo loro per pretendere più diritti e meno corruzione.
Studenti, contadini, operai, impiegati, disoccupati, popolazioni indigene. Tantissimi giovani, nuove generazioni, come Egan appunto, che vogliono di più per loro e per la loro gente. Ho detto che Bernal è espressione dei colombiani. Ma non lo dico io, lo ha affermato lui stesso proprio all’inizio della corsa rosa: «Voglio dire che mi fa male e provo dispiacere per quanto sta succedendo in Colombia, di fatto mi piacerebbe essere lì e poter stare vicino alla mia famiglia e in qualche maniera appoggiare al mio popolo. So il bisogno economico nel quale vivono la maggior parte delle famiglie nel nostro Paese, perché io stesso le ho vissute».
«Tuttavia – ha sottolineato senza remore – la cosa che più mi indigna sono i morti e i diversi abusi delle autorità verso le persone che escono per strada a protestare. Allo stesso tempo provo sdegno per le persone che approfittano dei disordini per fare atti di vandalismo. Se parliamo di questo tema non possiamo avere una doppia morale. Credo capire le ragioni per le quali il Governo vorrebbe fare la riforma tributaria, ma compare, se quelle persone vivessero nel bisogno che vive la popolazione, sicuro non farebbero così tanta pressione sul popolo».
«In più, credo che il problema di fondo sia che, anche se fa male dirlo, il Paese in alcune zone è ridotto una merda. Ci sono luoghi – elenca Bernal – con povertà estrema, con violenza, sanità assente, educazione, ecc. Governare un Paese non deve essere facile, però si suppone che le persone che sono al potere dovrebbero saperlo fare. È la loro responsabilità. Devono ascoltare e fare il meglio per il popolo. Anche se non sarà facile, mi auguro che il presidente Ivàn Duque Marquez cerchi una soluzione per tutto questo caos. Prima che la Nazione si veda ancora più danneggiata».
Foto in copertina: @Giro D'Italia
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