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Oltre la vanità: il messy middle è la scoperta che l’acqua bagna

20 Gennaio 2025
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Arriva oggi un aggiornamento di questa rubrica dedicato agli addetti ai lavori, marketer o improvvisati tali. Farò del mio meglio per rendere comprensibile questo testo anche a chi non si occupa professionalmente di marketing e comunicazione.

Oggi ci concentriamo su cosa accade nel processo decisionale (razionale, emotivo, spinto dalla necessità o dalla voluttà) che porta una persona dallo scoprire una cosa al comprarla. Descrivere questo processo, comprenderlo, sfruttarlo fa parte del mio lavoro e del lavoro di tantissimi altri che si occupano di digital-cose.

Per dirne una, si è da poco scoperto che la Gen-Z usa moltissimo TikTok come motore di ricerca. Questo non è particolarmente sorprendente, se consideriamo che già i millennial utilizzavano YouTube come motore di ricerca, spesso preferendolo a Google. Forse è proprio per questo motivo che Google decise di acquisire YouTube, un’acquisizione che all’epoca suscitò tanto scalpore.

Come dice chi parla bene, quindi, per la Generazione Z TikTok è fondamentale per la fase di esplorazione.

Ma che cos’è questa fase di esplorazione?

Proviamo ad andare con ordine, e venire a capo del buffo titolo.

Funnel e mappe, la semplificazione necessaria

Immaginate un imbuto: all’imboccatura ci sono tanti potenziali clienti e, in fondo, c’è chi compra davvero. Questo, in poche parole, è il funnel. Un modello che i professionisti del marketing usano da decenni per cercare di spiegare come le persone decidono cosa comprare. Il funnel si articola in diverse fasi, tra cui: notorietà, considerazione e conversione. Durante la fase di notorietà, i potenziali clienti scoprono il prodotto o il brand (esplorazione); nella fase di considerazione, valutano le alternative e si informano meglio (valutazione); infine, nella fase di conversione, prendono la decisione finale e procedono all’acquisto. Poi c’è la customer journey map, la versione romantica del funnel: un viaggio del cliente pieno di tappe emozionanti, come se ogni acquisto fosse un’epopea da romanzo d’avventura. Ad esempio, mentre il funnel si concentra sul far passare il cliente da una fase all’altra in modo sequenziale, la customer journey map considera tutte le interazioni e i punti di contatto che il cliente ha con il brand, come le ricerche online, le recensioni, il servizio clienti e i feedback post-acquisto, rendendo il percorso molto più sfaccettato e ricco di emozioni.

Ma la realtà è più complicata. Il funnel è utile perché semplifica, ma non è mai stato una fotografia fedele di quello che succede davvero nella testa di chi acquista. Non lo è mai stato, neanche ai tempi dei cartelloni pubblicitari anni ’60. Oggi, nell’era del digitale, la differenza tra modello e realtà è ancora più evidente.

Dalla linearità al caos: il messy middle

Nel 2020, Google pubblica uno studio e ci presenta il messy middle: una zona grigia nel percorso di acquisto dove le persone non seguono un ordine logico, ma si perdono in un ciclo infinito di esplorazione e valutazione. Non c’è niente di lineare: cerco un prodotto, leggo recensioni, torno su Google, mi lascio distrarre da un video su YouTube, riparto da capo. Questi comportamenti non lineari possono essere sfruttati dalle strategie di marketing, ad esempio attraverso il retargeting, per mantenere il cliente coinvolto e accompagnarlo verso la conversione anche durante le deviazioni del suo percorso.

E qui arriva la scoperta che l’acqua bagna: il messy middle è la descrizione di ciò che i marketer avevano già capito (o avrebbero dovuto capire). Gli utenti non seguono un percorso predefinito: sono bombardati da informazioni, bias cognitivi, offerte temporanee e notifiche push. Ad esempio, un utente potrebbe iniziare cercando informazioni su un prodotto, poi cliccare su un annuncio che lo porta su una pagina di comparazione prezzi, essere influenzato da una recensione su YouTube, quindi tornare su Google per cercare offerte speciali, infine vedere una notifica push da un e-commerce che propone uno sconto a tempo limitato. Questo ciclo può ripetersi molte volte, creando un percorso non lineare e difficile da prevedere. È questo continuo alternarsi tra esplorazione e valutazione che rende il messy middle tanto complesso quanto reale.

Lo studio di Google è illuminante? Forse sì, ma solo per chi è rimasto a un marketing scolastico, tutto imbuto e tabelle di Excel. Per gli altri, è solo la conferma che il caos regna, come spesso e quasi sempre accade.

Il problema dei modelli: utili, ma non sacri

Il messy middle, come tutti i modelli, non è una rappresentazione fedele della realtà. È uno strumento per ragionare, per orientarci nel caos. Funziona? Sì, ma solo se ci ricordiamo che non è la realtà.

C’è un pericolo, sempre dietro l’angolo: credere che il modello sia la verità. Lo vediamo ogni giorno nel marketing, con chi parla di funnel, di piramidi della motivazione o di mappe dell’empatia come se fossero leggi naturali, non metafore utili. Ad esempio, alcune aziende hanno adottato il modello del funnel come unica guida per le loro strategie, ignorando la complessità del comportamento dei clienti. Questo approccio ha portato a campagne pubblicitarie poco efficaci, perché non tenevano conto delle deviazioni e delle interazioni non lineari che caratterizzano la realtà del percorso di acquisto.

La realtà è che ogni cliente è diverso. Non c’è un percorso unico. I modelli ci aiutano a capire, ma non ci danno certezze. E quando ci accorgiamo che un modello non basta più – come è successo con il funnel – lo cambiamo. È successo con AIDA (un framework utilizzato nel marketing per descrivere le fasi del processo di persuasione di un cliente: Attenzione, Interesse, Desiderio e Azione), è successo con la customer journey map. Succederà anche con il messy middle.

Oltre il modello

Il messy middle ci dice qualcosa che sapevamo già: il percorso del cliente è confuso, non lineare, pieno di deviazioni. Ma ciò non significa che il modello sia inutile. È una semplificazione, e come tutte le semplificazioni ci aiuta a capire meglio una realtà complessa. I modelli di clusterizzazione basati sull’intelligenza artificiale possono aiutarci a comprendere meglio il messy middle, identificando pattern e segmentando i clienti in base al loro comportamento. Ad esempio, un noto retailer ha utilizzato l’AI per analizzare i dati di navigazione dei clienti, creando cluster specifici in base agli interessi e alle fasi del percorso di acquisto. Questo ha permesso di inviare offerte personalizzate e contenuti rilevanti, migliorando significativamente il tasso di conversione e l’esperienza complessiva del cliente. Questo ci permette di personalizzare le strategie di marketing e di indirizzare i messaggi giusti alle persone giuste, nel momento giusto, aumentando così le probabilità di conversione e, in ultima analisi, vendere di più.

L’importante è ricordarsi che stiamo parlando di astrazioni, anche e forse soprattutto quando parliamo di utilizzo dell’AI in modo integrato alle strategie e agli strumenti del marketing.

La customer journey non è il viaggio del cliente, è una mappa. E le mappe non rappresentano il territorio, ma ci servono per orientare le nostre strategie.

In definitiva, il messy middle non è una rivoluzione, ma un aggiornamento. Un reminder per chi si era dimenticato che, nel marketing, come nella vita, i fenomeni non sono lineari. Accettare il caos significa adottare un approccio più flessibile e adattivo, dove l’analisi dei dati e la capacità di rispondere rapidamente ai cambiamenti sono fondamentali. Le aziende che riusciranno a comprendere e sfruttare il messy middle, senza reificarlo ma trattandolo come un modello, avranno un vantaggio competitivo, poiché saranno in grado di creare esperienze personalizzate e rilevanti per i propri clienti, aumentando così la fiducia e la fedeltà nel lungo termine.

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