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La serie tv The OA è un manuale di fisica quantistica dei millennial o l’ennesima fiaba distopica per generazioni molli?

14 Dicembre 2022
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Sì vabbé, dentro la serie tv The OA ci sono i soliti cliché Netflixiani: il professore pazzo, gli adolescenti problematici, l’America disagiata, un paio di transgenderini multietnici, un animale più intelligente dell’uomo (polpo).

E poi ci sono anche: ex bancari cavie appesi alle flebo, genitori incompresi, cibo vegano e una spruzzata di oligarchi russi cattivi. Niente sesso, come al solito, che però è compensato dalla beltà imperfetta della millennial Brit Marling.

Eppure bisogna arrendersi, nelle serie tv distopiche di Netflix c’è sempre un’idea, un pezzo che ti fa dire, «Aspetta, sta roba mi manca, vediamo un po’». È proprio il caso di The OA, viaggio semipsichedelico e ultradivulgativo nelle teorie della meccanica quantistica che sostengono l’esistenza degli universi paralleli o multiversi, che dir si voglia.

Metaverso malattia infantile del Multiverso

Con buona pace di Zuckerberg, il Metaverso, con le sue suggestioni di altra dimensione, è ridicolo: qui stiamo parlando di realtà parallele e non di uffici virtuali. Se c’è chi sostiene che il genio di Meta voglia in realtà avvicinarsi alla creazione di mondi, paragonandosi ancora una volta a una divinità (quella delle particelle elementari), l’idea di rendere poi questi universi commerciabili finisce per far sembrare il tuttoverso come una scimmiottatura di una scienza ancora molto di confine.

The OA, complice una fotografia eccellente e semmai leggermente patinata, punta sul tema vero: le altre dimensioni, se esistono, non dipendono, dalla nostra volontà di creare mondi alternativi, ma solo dalle nostre scelte, quelle compiute e quelle non compiute.

È così che funzionerebbe la teoria del multiverso, per cui esiste una pluralità di universi paralleli, creati da ogni decisione che ciascuno di noi prende in questo mondo. A crederci ci sarebbe quindi un mondo in cui i nazisti hanno vinto la Seconda Guerra Mondiale e un altro in cui Hitler è rimasto un aspirante pittore disagiatissimo.

I fisici teorici studiano questi scenari da più di 50 anni, elaborano cioè calcoli matematici in grado di descriverli. Secondo la formulazione pubblicata su “Physical Review X nel 2014 da un team dell’University of California a Davis, e della Griffith University australiana, non solo gli universi paralleli esisterebbero davvero, ma potrebbero persino interagire.

L’impatto multidimensionale sulla generazione millennial

«Il multiverso mi ha reso una persona più felice». A dirlo su The New Scientist non è un millennial ma uno che ne è sicuramente il faro: Max Tegmark, fisico del Mit, cosmologo ed esperto di machine learning: «Mi ha dato il coraggio di correre più rischi», ha detto. Nella nostra serie il rischio è all’ordine del giorno: i presunti viaggiatori intradimensionali si ficcano quasi sempre in guai e boiate dalle quali non riescono a uscire se non.. crepando per rinascere altrove.

C’è da dire che l’impazienza dei millennial e degli Zeta è qui ampiamente sviscerata. Quando Simon Sinek imita il millennial tipo che dopo un mese di lavoro va dal capo e gli dice: «Mi licenzio perché non sto lasciando il segno», troviamo tutta l’urgenza di altre dimensioni in cui ricominciare da capo per poi annoiarsi e trasportarsi altrove.

E se fosse proprio questo a muovere capitali e intelligenze del millennial Zuck? Irrompere in un desiderio di altrove troppo forte per non essere accontentato con la tecnologia disponibile? Meta non è certo alla meta, anzi, vacilla. Però The OA offre una chiave per un marketing che smetta di guardare alla tecnologia come fine, con il suo valore di comodità sempre più straniante, o di esaltatore di sapidità di una vita che non basta mai. La tecnologia, come la scienza possono così diventare mezzo. Per guardare dove? Per andare dove?

Isolati come atomi

Le nuove generazioni per ora sembrano aver risolto così l’enigma. Con nuove esperienze e immersioni in personalità multiple o “fluide” tentano l’assalto al quotidiano conforme. In sottofondo la colonna sonora lieve e triste dei motori elettrici dei monopattini. La musica dai pod che sembrano apparecchietti Amplifon e nessuno lo ammette. Una micro dimensione volatile e per nulla sociale, contrariamente a quanto la moltiplicazione delle piattaforme condivisive potrebbe far credere. Nessuna moto o elettrodomestico che, come scriveva Guccini in Black out, «scatarra versi futuristi».

La rabbia relegata nei testi delle canzoni trap, piene di disagio, griffe e calibro Nove. Un mesto tentativo di fuga dal controllo cyberautoritario, l’egotico “sono reale e lo dimostro (BeReal), ma sono reale in almeno 365 modi diversi all’anno”. I professori che a scuola si chiedono dove sia la ribellione, quella vera, capace di andar oltre il mero bullismo.

Del resto non si può nemmeno ignorare che l’impulso di fuga in altri mondi sia un tema nuovo. È il leitmotiv del secolo scorso: l’eroina, la psichedelia rimbambente, il Roipnol, il Valium e, all’opposto, le droghe da performance per inventarsi una vita parallela da broker brillantoni o da seduttori seriali titolari di Lambo&Startup.

E infine, oggi, anni Venti, venati dalla mestizia della Finta Dimensione: sembrare ricco in un selfie, sembrare coraggioso in un reel di sport estremi, sembrare engagé in un look shock firmato da Alessandro Michele o indossato da Achille Lauro.

Una dimensione dove tutto è sdoganato, ma con educazione: puoi ubriacarti di Gin analcolico, fumare tranquillo senza accendere nulla, trovare sesso o amore scopo matrimonio con il medesimo algoritmo e senza rischiare fregature. Il capo si può mandare tranquillamente a fare in culo, ma previa un adeguato team building che ti insegna a farlo senza rischiare il posto. Peraltro il posto in un ufficio che non c’è più, perché se l’è già filata pure lui in un’altra dimensione.

La notte di Internet c’è ed è il dark web, ma sono soltanto le antiche fogne digitalizzate, roba per impotenti psicopatici. Pochi e clandestini. La notte qui in superficie è illuminata come un derby a San Siro. Tanti atomi e particelle elementari che la realtà ha separato e lasciato soli con se stessi. Che smaniano di passare ad altre dimensioni, proprio come i gravitoni, le particelle che la scienziata quantistica Lisa Randall ha visto e descritto in Passaggi curvi. I misteri delle dimensioni nascoste dell’Universo (2008).

Nuovi “spazi” pubblicitari?

Marketer, prendete nota, come dimostra Netflix (per l’ennesima volta dopo Black Mirror) il bisogno di immaginarsi nel futuro non fa più molto engagement. Non fa vendere. La distopia generale lo offusca. C’è invece il bisogno di immaginarsi nel mondo parallelo in cui si vedono gli effetti di decisioni diverse che ci riguardano. In cui persone che sono morte potrebbero teoricamente essere ancora vive perché non hanno fatto quelle scelte che le hanno portate alla morte o viceversa. In cui una carriera universitaria diversa da quella che abbiamo seguito ci potrebbe proiettare in una vita completamente “altra”.

Ma il punto è: migliore o peggiore? E soprattutto, i gravitoni sono consapevoli del loro girovagare senza costrutto? Qualora questa scienza borderline postulasse la possibilità anche per umani senzienti di spostarsi in parallelo, sarà dato mantenere la memoria della dimensione precedente, e quindi godere nello sperimentare la differenza?

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