Oltre la vanità: Il senso di Donald Trump per la marketing automation
Analisi del trumpismo: i segreti del presidente americano su come personalizzare i messaggi e influenzare così l’opinione degli elettori
Negli ultimi anni ho fatto della marketing automation la mia professione, mentre la comunicazione politica è stata da sempre una mia grande passione.
Sarà perché sono emiliano-romagnolo, sarà che in casa mia fin da bambino si parlava di politica, ma quel lavoro che dai valori profondi di un pezzo di società esprime proposte di azioni convincenti in una campagna elettorale mi ha sempre affascinato tremendamente.
Così come mi affascinava il periodo elettorale, dall’elaborazione dei messaggi fino ai manifesti attaccati con colle improbabili di notte e di giorno.
Propaganda: così la chiamavano i vecchi del partito.
Full disclaimer: ho lavorato e collaborato a diverse campagne elettorali, da Prodi 96 all’entusiasmante campagna delle primarie Renzi 2012. Ho fatto per diversi anni il collaboratore parlamentare, esplorando come gli slogan prima del voto si traducono in proposte e disegni di legge.
Ma, nonostante la passione per i numeri e le tecniche della comunicazione politico-elettorale, negli ultimi anni è venuto completamente meno l’ interesse per i contenuti. Forse perché la propaganda polarizzante di questi anni è così feroce da aver perso il senso di valori e realtà, per inserirsi a pieno titolo nel delirio da influencer.
Ma torniamo da noi. Oggi vi parlo di alcune tecnicalità rilevanti per il marketing politico anno domini 2024.
Qualcuno ricorderà l’interesse molto forte per il caso Cambridge Analytica nelle elezioni USA del 2016. Pacchetti di dati in fuga da Facebook verso la campagna di Trump: pacchetti di dati utilizzati per fare microprofilazione con le piattaforme pubblicitarie, su cosiddetti dati di terza parte (dati raccolti da altre fonti, spesso tramite partner commerciali, e non direttamente dall’utente). La ricerca ha in parte smontato la forza di quel fatto, poiché non esistono analisi conclusive che ci dicano quanto abbia spostato in termini di voti il contrabbando di dati e la successiva microprofilazione (i lavori di Walter Quattrociocci e del suo team di Data Science alla Sapienza sono molto interessanti, per smentire alcuni frasi fatte sul digital, ci torneremo).
Ma se allora parlavano di cookies e di pubblicità, quello che sta sfuggendo a molti analisti oggi è l’uso pervasivo che Trump e la sua campagna fanno di sistemi di marketing automation, a partire dal suo basilare alleato, il Direct Email Marketing.
Non se ne parla moltissimo, si trova qualche inchiesta su Politico, su The Atlantic e sul New York Times, e quasi sempre collegate a quel maldestro tentativo di creare una piattaforma social con il suo Truth.
La verità, però, è che negli anni Trump e i suoi tecnici hanno raccolto una infinità di dati personali, dati di prima parte fornita in modo consensuale ed entusiasta da chi ha un sentire comune con l’arancione più amato dell’emisfero Nord. E questi dati sono utilizzati per automatizzare le azioni di marketing.
Per i non addetti ai lavori, basti dire che la marketing automation, argomento di cui mi occupo professionalmente e quotidianamente, è un insieme di tecnologie e tecniche che permettono di automatizzare, gestire e misurare i flussi di comunicazione e marketing con i clienti, personalizzando il messaggio per ogni utente e ottimizzando le interazioni su più canali.
In parole anche più semplici, salviamo da qualche parte l’indirizzo email di una persona che si iscrive a una newsletter, e ci mettiamo attorno tutti i dati che riusciamo a reperire: geografici, valoriali, socio-demografici, chi più ne ha, meglio comunica. E sulla base di questi dati, mandiamo a ognuno email altamente profilate.
Perché sì, ci si è chiesti molto in questi mesi come Trump abbia potuto vincere promettendo appoggio a Israele per i filo-israeliani, e il salvataggio di Gaza per i pro-pal. Lo ha fatto grazie a strumenti che tagliano il messaggio sulla base del ricevente, rendendolo personale, vicino, affine.
Poco etico, forse, ma strepitosamente efficace.
Non che i democratici siano alieni alle frontiere del digital: i dem dai tempi della campagna delle primarie di Howard Dean del 2004 sono all’avanguardia, senza citare il solito Obama. Ma Trump ha avuto a disposizione una marcia in più: una enorme notorietà garantita dalla televisione e dello showbiz, che lo accompagna fin dai primi passi come palazzinaro newyorkese e protagonista del gossip, che si è rafforzata con The Apprentice e che poi è esplosa grazie al ruolo di POTUS.
Per portare a terra il ragionamento, e condirlo con la mia esperienza professionale, ecco una piccola conclusione: la marketing automation dà il suo massimo quando diventa un asset patrimoniale che capitalizza e rende usabili i dati ottenuti grazie a una grossa mole di notorietà.
Come si ottenga la notorietà di massa (o di nicchia, per un brand di settore o una elezione locale) è grande argomento di discussione, oggi. Se Trump nel 2016 aveva avuto un appoggio massiccio di Fox News, oggi ha sfruttato la rete dei podcast (si, parlo anche di Joe Rogan) per incrementarla ulteriormente, mentre a Harris non è basato l’appoggio di CNN e MSNBC e, soprattutto, non ha avuto tempo di convertire la notorietà in relazioni stabili realizzabili tramite messaggi email ripetuti, comunicazione mobile personalizzata, adv altamente profilata. Serve tempo affinché la strategia esprima tutto il suo potenziale.
Quello che possiamo imparare da Trump non è solo una lezione di marketing politico, ma anche una riflessione sul potenziale dell’automazione per generare un engagement profondo e duraturo. La chiave è l’uso intelligente dei dati, la personalizzazione spinta e una strategia flessibile capace di adattarsi ai segnali in tempo reale (e qui l’alleanza con Elon e il suo X è stata cruciale). Trump, per molti versi, ha portato la marketing automation fuori dai confini tradizionali del business, dimostrando che il messaggio giusto, con il giusto livello di persuasione e ripetizione, può davvero spostare il baricentro dell’opinione pubblica.
Il twist più interessante del ragionamento, però, è il fine di Trump.
Se guardiamo alle email che il suo staff invia, vediamo formalismi semplici e urlati, che ricordano lo spam del Viagra, che non consiglierei mai ai clienti che seguo, ma che certamente sono efficaci su certi tipi di pubblico.
Ma la cosa ancor più interessante sono le CTA, le call to action, i pulsanti all’interno delle email che invitano all’azione: tutte riguardano donazioni, acquisti di merchandasing, azioni rivolte a rimpiguare il patrimonio del nuovo President of the United States (guardate questo “Donate to Enter”, dove si scopre che donare, in realtà, non serve per partecipare all’inauguration date):
Come diceva Formica? La politica è sangue e merda: aveva scordato i soldi. Perché la conclusione a mio avviso è ancor più intrigante (e ha esempi italiani molto evidenti).
La politica oggi, e non solo per Trump, è una macchina da soldi, che aiuta a capitalizzare valori, mugugni, scontenti, fa leva sulla polarizzazione per spingere all’azione la propria base elettorale, anche con l’aiuto di intelligenze artificiali sempre più performanti. Poco importa se la base elettorale nella sua complessità stessa pensa cose ortogonali sugli stessi argomenti, quando riceve messaggi infiammatori coerenti con la propria visione del mondo.Un modello di marketing automation poco responsabile, sicuro, che mai metterei in atto personalmente, ma assolutamente efficace per raggiungere i fini che si propone: monetizzare.
Un ps per chi è arrivato fino a qui: io avevo concluso con “guadagnare”. ChatGPT mi ha suggerito “monetizzare”. Io preferisco la forma precedente, ma chi sono per oppormi alle AI? Alla fine, come cantava Contessa, dovremmo monetizzare, questo nostro grande amore, con dei video virali, o dei post svergognati: più o meno, il punto della rubrica è questo.