Lo scrittore Salman Rushdie, la fatwa, il successo in Occidente: che cosa ci insegna il suo tentato omicidio
Salman Rushdie era a Chautauqua, nello stato di New York, quando un uomo lo ha accoltellato diverse volte. Al di là del fatto che nel 2004 si è sposato con una splendida modella (ora manco a dirlo attivista e food influencer), Padma Lakshmi, dello scrittore Salman Rushdie in Italia non si parlava più da anni.
Ma i millennial, che di sicuro non ricordano la cronaca della seconda metà degli anni 80, devono sapere che con Versi satanici, (pubblicato in Italia da Mondadori) l’autore si beccò una fatwa, ovvero una condanna a morte.
Versi Satanici è un testo contro il fondamentalismo islamico che provocò l’ira dell’ayatollah Ruhollah Khomeini nel 1989. Il capo religioso iraniano oltre alla fatwa, mise su di lui anche una taglia milionaria. Negli anni a seguire anche l’ayatollah Ali Khamenei rinnovò la sentenza in quanto il libro rimane per le autorità religiose un testo blasfemo blasfemo.
Si professa ateo e, all’età di 75 anni, è sul punto di pubblicare un nuovo libro. Il suo stile, fin dalle origini è paragonato al realismo magico: la sua impronta è fantasia che si intreccia con la realtà, la storia e la religione.
La pubblicazione del libro nel febbraio 1989 decretò una condanna sulla base della quale nel mondo ogni musulmano avrebbe avuto il diritto dovere di farlo secco. Ottenne rifugio nel Regno Unito e da allora ha sempre vissuto sotto protezione.
La fatwa però non riguardò soltanto Rushdie, ma tutti coloro che erano e sarebbero stati “complici” della pubblicazione del suo libro.
L’allarme infinito
L’allarme toccò infatti anche l’Italia: nel palazzo sede della Mondadori editore a Segrate furono rafforzati i controlli all’ingresso. Ma questo non evitò che il traduttore italiano del libro, Ettore Capriolo fosse accoltellato da un iraniano in casa sua. A William Nygaard, editore dell’edizione norvegese, i rappresentanti delle frange islamiche più violente spararono con una pistola, ferendolo gravemente.
Andò decisamente peggio al traduttore giapponese del romanzo, Hitoshi Igarashi, che fu ucciso da emissari del regime iraniano.
Il tempo non curò la ferita degli oltranzisti. Tanto che la fatwa è stata reiterata il 17 febbraio 2008, in quanto molte autorità religiose sostennero che «la condanna a morte dell’Imam Khomeini contro Salman Rushdie ha un significato storico per l’Islam e non è soltanto una condanna a morte».
Avere memoria di questi fatti dovrebbe spingerci a essere meno superficiali nella valutazione della recente ondata di terrorismo islamico in Europa. Quanto è accaduto a Charlie Hebdo o al Bataclan a Parigi oggi ci sembra quasi consegnato alla Storia. Ma l’episodio dell’accoltellamento di Rushdie sta lì a dimostrare che una fatwa non scade mai.
I dubbi e la libertà di espressione
C’è poi un aspetto sul quale tutti pecchiamo di scarsa lucidità: lo sfruttamento commerciale dell’odio religioso verso di lui. Il romanzo successivo di Rushdie, I figli della mezzanotte, fu un best seller. Vinse il premio “Booker of Bookers” nel 1993. Ma il successo non fece che peggiorare la sua situazione e anche l’India e poi il Pakistan lo misero al bando per aver macchiato altri aspetti tradizionali e religiosi dei Paesi.
Insomma, se non fosse stato sempre blasfemo e profanatore, Salman Rushdie avrebbe continuato a essere uno scrittore di successo? È un delirio che assomiglia, anche se molto da lontano, a quello della cancel culture. Fino a che punto l’artista si può spingere? Dovrebbe evitare di offendere importanti gruppi di pubblico e rinunciare alla libertà di espressione? Potrebbe tentare altre strade e avere ugualmente successo? E quanto questo potrebbe influire questa scelta sull’interesse da parte degli editori?
C’è poco da fare, comunque la si metta chi è cresciuto nella cultura Occidentale non può nemmeno lontanamente pensare che si censurino artisti e romanzi per questioni religiose. Ma occhio ragazzi che la modalità culturale talebana può proliferare ovunque e la cancel culture ha qualcosa di inquietante che somiglia a quell’atteggiamento. Anche se in nome di una “religione” travestita da qualche cosa d’altro.
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