Essere donne in Arabia Saudita: racconto di un arresto a volto scoperto
Dopo aver letto questo racconto della millennial Hilal Isler, a noi della partita Juventus Milan del 16 gennaio a Gedda frega una sega. Voi fate un po’ come vi pare
Mi sono sempre coperta senza obiezioni, come tutte le donne in Arabia Saudita, ho indossato ciò che loro, i sauditi mi dicevano di indossare. Qui ci sono leggi severe sui vestiti e sul corpo, sull’amore e la devozione. Le leggi di Dio, dicono. E chi sono io per discutere con Dio?
A Riyadh, all’interno di questa scuola, nascosta dietro un cancello di ferro di 3 metri e 60, non ho trovato Dio. A volte spinta dalla curiosità aprivo il Sacro Libro, seguivo i versi dentro come una scia di briciole nel cuore di una foresta. Cercando, speranzosa.
Nei giorni successivi alla diagnosi del cancro di mia madre, in particolare, ero intensamente impegnata in questa ricerca. La sensazione era di essere in balia di qualcosa che non potevo controllare.
Paesi in via di sviluppo, li chiamiamo. I paesi poi diventano altro, chissà che cosa.
In classe con me c’erano 26 ragazze. Da Turchia, Iran, Pakistan, Libano: paesi con grandi storie, grandi civiltà antiche. Paesi in via di sviluppo: così ci dicono che dobbiamo chiamarli. Dopo questo sviluppo questi Paesi diventano altro, chissà poi che cosa. Noi donne in Arabia Saudita non lo sappiamo e, nonostante tutte le bugie e le finzioni, anche i nostri genitori non lo sanno.
Sono loro che ci hanno portato qui, lasciandosi tutto alle spalle. Emigrati in questo posto di grattacieli cromati e servitù a contratto; di stoffa cerata per formaggio e infinita sabbia rossa bollente.
Questa storia risale al giorno in cui io e le mie amiche abbiamo preso il diploma. Avevamo sostenuto l’ultimo degli esami finali. Avevamo finito il Liceo, finalmente. Per tutta la mattina ho lasciato che Aya copiasse il mio quaderno, dato che l’avevo lasciata fregare tutto l’anno.
In linea di principio, Aya non si preoccupava dei voti. Voleva essere una cantante, forse una modella o un’attrice o una dipendente UNICEF, a seconda del giorno. Ha sempre avuto una sicurezza di sé molto spontanea, mai falsa.
Aya mi diceva che il vero potere è il rispetto di sé. Anche se sei una donna in Arabia Saudita il tuo potere sta nella capacità di riconoscere il tuo valore in ogni momento. Il potere non dipende da cosa indossi o bevi, o con chi fai l’amore, diceva lei. La ricerca di risposte nella trama di un tessuto nero o su pagine di pergamena inchiostrata non è la via. Noi siamo la via. Non c’è altra via che noi.
La maggior parte dei fine settimana, Aya cercava di divertirsi. Ospitava “feste miste”, come le chiamava lei. Suo fratello frequentava la sezione maschile della nostra scuola superiore. I suoi amici arrivavano all’imbrunire, eccitati come una tribù nemica che spingeva contro i cancelli di un recinto fortificato. Motorini in testacoda, giubbe di pelle, una pelle molto Michael Jackson.
Non ho granché di interessante da dire su queste feste. Chi ha voglia di sentirmi parlare di me sola in bagno, in fuga dai ragazzi con gli occhi troppo avidi? Chi vuole sapere di me in piedi vicino a un muro, con le nocche delle mani bianche avvolte intorno a una lattina di Sprite?
Se le autorità avessero scoperto le nostre feste miste, saremmo state arrestate e fustigate. Se le giovani donne in Arabia Saudita sono pescate in compagnia dei ragazzi, sono condannate prima a una fitta sassaiola, poi alla prigione.
Ma Aya mi assicurava che ne valeva la pena. Rilassati, diceva lei. Abbi fiducia. È un nostro diritto esplorare, passeggiare sulla luna, arrossire, baciare se ne abbiamo voglia. È nostro diritto soddisfare le richieste fisiologiche che il nostro corpo ha iniziato a farci. Richieste non familiari che ci infiammano l’anima e trasformano i nostri corpi in torce.
Mentre lasciavo l’aula d’esame quel giorno, Aya e le altre ragazze mi aspettavano fuori. Eravamo in cinque più l’autista. Siamo salite tutte nella macchina di Maey. Era l’ora di punta, quindi ci muovevamo lentamente lungo Al Sulimaniyah Road. Aya premette il dito contro la finestra. Guarda, disse. Pioggia.
Queste gocce erano sacre. Aya si era tolta il velo dal viso, la sciarpa e scuoteva i lunghi capelli lisci. Rawya applaudiva. Haram, l’autista intimava attenzione a queste pazze giovani donne in Arabia Saudita. Poi Aya si era girata a chiamare i ragazzi dietro la Jeep, schernendoli.
Quando la pioggia era aumentata, Aya si era messa a ridere offrendo la gola al cielo. Alzava le braccia, allargando le mani, come piccole stelle.
A un certo punto dentro l’auto si era formato un lago. In uno spettacolo di solidarietà, anche le altre ragazze si erano scoperte il volto, ma io no. Stavo sul marciapiede di fronte al French Corner Bakery, gocciolante e cocciuta. La mia abaya si aggrappava al mio petto magro: una coperta di sicurezza fradicia e debole.
La pioggia torceva i capelli di Aya. Lei si era alzata la gonna della sua uniforme, mettendo in mostra i fianchi lisci e sottili. Uno scandalo. I ragazzi avevano cominciato a urlare.
Aya li ignorava. Riuscivo a percepire gli sguardi su di me. Sul niqab che indossavo, il niqab che ho iniziato a indossare anche quando non era richiesto: al centro commerciale, in fila al KFC. Mi piaceva indossarlo. C’è così tanta libertà a volte dietro un velo.
Aya amava parlarmi del potere personale, di come potesse essere rivendicato attraverso un atto di ribellione: una gamba proibita in mostra per un istante, un fiero movimento dei capelli. Ma c’è anche un potere che viene dall’essere nascosto, le dicevo. È il potere silenzioso dell’ignoto; il potere di vedere senza essere visto, il potere di Dio stesso. Aya aveva abbassato la voce. Togliti quella merda, mi diceva. Fallo solo una volta. Fallo per me.
I clacson, i fischi per strada, sembravano rafforzarla. C’era forza nella sua bellezza. I suoi lunghi capelli biondi erano un’arma, e intorno a noi, gli uomini ci assediavano pronti alla battaglia.
Si era così alzata la gonna più in alto, per mostrare loro il fianco e a me il modo in cui il potere femminile poteva stuzzicare. Per tutto il tempo io ero rimasta contro un muro, o in bagno, nel mio sudario da morta vivente.
Il mio niqab era diventato una linea nella sabbia ogni volta che uscivamo: uno scudo che avrei potuto abbassare e sollevare a seconda della mia volontà. Ma sembrava impossibile riuscirci.
Forse aveva ragione. Forse avevo soltanto paura di essere vista dagli uomini, paura di sentirmi esposta. Forse giustificavo la mia paura in questo modo, fingendo che il velo fosse sacro, tenendomi una maschera.
La pioggia era calata, ma i clacson si sentivano ancor di più. Ognuna di noi si sentiva trasgredire. Volevo che questa escalation si fermasse. Non volevo pensare a quale strada fosse giusta, non volevo affatto scegliere. Avrei voluto vivere in un mondo in cui ogni comportamento fosse giusto. Volevo essere una ragazza e solo quello; non un proclma, o una fomentatrice, o una ribelle, o qualcosa di politico.
Qualcuno era tornato a urlarci dalla strada.
PUTTANE!
Mi ero subito ritratta, ma lei no.
Voi, PUTTANE!
Dai , Hilal, tentava di convincermi. Stiamo lasciando questo posto. Siamo diplomate ora. Mi rendevo conto che il mio niqab diventava una linea nella sabbia ogni volta che uscivamo: uno scudo che avrei potuto abbassare e sollevare a volontà anche se sembrava impossibile riuscirci.
Fino a quando l’ho fatto.
Potevo vederla più chiaramente, così. Lei mi sorrideva.
Non è meglio?
No, rispondevo, e lei rideva e si appoggiava, baciandomi sulla guancia con il suo sorriso.
Ci sono persone, anche donne, in Arabia Saudita che credono che il rispetto sia contenuto all’interno di una veste, una copertura, un velo. Alcuni sostengono che l’abbigliamento giusto serve a offrire protezione per la strada, ma che può anche essere un incantesimo contro i serpenti, che può consegnarti direttamente al cielo. Alcuni credono che quello che indossi dichiari il tuo valore nel mondo, il tuo carattere, il senso di responsabilità e infine il tuo potere.
Ma io non ero una di quelle persone. E lo sapevo.
Quando avevo tolto il mio velo, li avevo visti: bastoni di legno in mano, passo spedito da poliziotti. Gridavano la loro furia. Aya si era tirata su. Alle sue spalle, i soldati.
Mai stata arrestata prima, vero, Hilal? Mi diceva Aya.
Mai. Era il mio giorno fortunato. Guardavo mentre lei spingeva le sue braccia in un gesto di benvenuto verso la polizia, per poi unire i palmi delle mani come in un’offerta o una preghiera.
LEGGI ANCHE:
Tatler incensa la donna radical chic
Che cosa fanno le donne ricche di diverso rispetto alle ragazze povere?