Perché vengono i brividi? C’è il brivido di paura, e c’è il brivido di bellezza. Che a volte è un preludio al pianto. Lo sentiamo partire dalla schiena, sale su, dietro al collo, e si sprigiona negli occhi, lo pensavamo freddo e fatto di pelle e invece ci cola dalle palpebre liquido e caldo.
A volte chi chiediamo se lo provino tutti, il brivido di bellezza, o se invece non siamo noi a essere speciali: il brivido increspa e sussurra, difficile scovarlo nei corpi degli altri, non urla come la bocca e la gioia. Non esiste un termine per definire la sensazione che lo provoca. È la rivelazione di un’armonia nell’universo.
Ci sono per forza dei momenti, in comizi accesi e sentiti, in concerti ben suonati, in cui uno stesso brivido percorre centinaia di schiene e di nuche, si trasmette da un corpo all’altro come una forza di gravità senza schianti, come un impulso elettromagnetico azzurro. Non c’è senso di appartenenza se non c’è pelle d’oca collettiva.
Magari ti rendi conto che è stata una banalità a provocarlo, ma il brivido parte sempre prima che tu possa pronunciarne il nome. Basta un “cambieremo il mondo” urlato da un palco, un giro di do che segue fedelmente la strada, un quadro le cui linee raccontano senza parole qualcosa di noi, il verso che apre il ritornello su cui converge, ogni volta, inevitabilmente, l’intera onda emotiva di una vecchia canzone. L’aspettavamo, quel verso, ed eccolo lì, proprio dove doveva essere. Per un breve istante i pezzi si ricompongono, le cose trovano un senso. La linea di quel naso si incurva esattamente doveva deve incurvarsi, a una nota segue proprio la nota che doveva seguirla, a una parola la giusta parola, a uno sguardo la parola che quello sguardo prometteva. Perché il brivido si dà le rare volte in cui il mondo mantiene le sue promesse di bellezza. È una consolazione brulicante, una teodicea che corre tra i pori, l’avverarsi di piccole speranza mortali.
Perché vengono i brividi? A volte è una sorpresa che non osavamo aspettarci, ma che abitava quella stessa stanza segreta dove si nasconde la folle decisione di alzarsi ogni mattina. Un fiore sul tavolo della cucina quando rincasiamo la sera; una carezza di cui la nostra pelle continua il disegno anche dopo che la mano se n’è andata altrove; un estraneo che cede il passo senza motivo; il riconoscimento di qualità che temevamo invisibili agli altri; quando certi colori del cielo terrestre sembrano fatti apposta per nascondere l’infinità gelata degli spazi siderali; può bastare perdersi nella forma di un broccolo romano: le rosette disposte a spirale riproducono la forma complessiva del broccolo in scala ridotta, e sono fatte di altre rosette più piccole, e ancora e ancora, in una riduzione armonica potenzialmente infinita. Il brivido di bellezza è il controcanto epidermico alla successione aurea, un coro di bulbi attorno alla formula di Fibonacci, un’ovazione dei peli per le sporadiche trasformazioni del caos in cosmo.
Contrazione involontaria delle nostre angosce, che per un attimo si ritirano nelle profondità del sangue, non possiamo provocarcelo di proposito, né possiamo sperare che ritorni più volte di seguito. Già alla quarta canzone di un album i suoi echi cutanei si fanno più lievi. La vita mortale, la nostra vita qui, finita e che brancola, è giusto una vita in cui i brividi passano. Tanto da poter immaginare che un’umanità salva dal peccato originale sia tale e quale alla nostra, ma con la pelle perennemente irruvidita dalla bellezza.
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