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I branded content sono sempre più il futuro dell’intrattenimento? Sì, fine del tabù dei duri e puri

7 Agosto 2020
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Meglio una serie tv fatta con molti soldi ma sponsorizzata da un marchio o una fatta in economia, dentro un interno squallido. Eddai, su, rompiamo il tabù dei duri e puri

Ieri sera cenavo con un vecchio amico, e a un certo punto è uscita la domanda: “Ma perché ci dovremmo fidare più di un artista rispetto a un brand?”.

Sì, perché io e lui siamo due vecchi appassionati di cinema, e da sempre il cinema è un mix tra chi finanzia un’arte costosa e chi vuole affermare la propria visione.

(Una versione leggermente evoluta di questo articolo potete ascoltarla via podcast, qui sopra)

Più in generale l’arte, altrettanto da sempre, o è figlia di mecenatismo o è figlia delle vendite: in mezzo ci sono solo gli artisti nati ricchi (ai quali, spesso, manca il fuoco dentro).

La domanda, in epoca di branded content, per me è assolutamente legittima: perché una serie tv o un film prodotti dalla visione di un autore non possono essere anche la voce di un brand? E, soprattutto, è possibile per il marchio che decide di produrre intrattenimento (ma possiamo anche dire arte) ottenere un legame empatico con il pubblico?

Di certo la risposta è sì: non è facile, ma ormai è evidente e forse solo alcune vecchie incrostazioni nei processi di marketing fanno sì che non si spinga il branded entertainment come uno degli strumenti più importanti del marketing mix.

Non solo per la capacità di storytelling, la presentazione dei valori, ma anche e soprattutto per il legame empatico che storie e narrazioni riescono a creare.

Tutto è narrazione

Tutto è storia: ogni racconto, veritiero o meno, è percepito dal pubblico come narrazione. Personalmente ho trovato di rara potenza Adidas che condivide su Twitter il supporto di Nike a Black Lives Matter.

Un momento politico, che alcuni percepiscono come ipocrita da parte delle corporation, ma che a me ha ricordato come le aziende siano fatte da persone. In questo caso persone che hanno proposto e deciso un passo senza precedenti, un’alleanza col peggior competitor contro il peggior nemico.

Se per Bazin nella nascita della nouvelle vague si parlava di politica degli autori, per far capire come i registi potessero affrancarsi dallo Studio System hollywoodiano, oggi possiamo parlare di intrattenimento di brand per l’affrancarsi dei marchi dai prodotti, brand che diventano generatori di valore e valori, produttori di senso e sentimento per il proprio pubblico.

In fondo, quando Bazin riconosce in Hitchcock (e in tanti altri autori dell’epoca d’oro di Hollywood) il crisma del genio, fa un’operazione non diversa dal caratterizzare una persona di un determinato valore: oggi lo chiameremmo personal branding.

Il contemporaneo è un terreno scivoloso: da un lato rimarchiamo il ruolo dei brand nella costruzione del sistema valoriale in cui siamo inseriti, dall’altro siamo sempre più convinti dell’importanza delle persone nei processi di comunicazione. I

n fondo il successo di molti speaker e conduttori radiofonici sta sorpassando il valore delle emittenti stesse, per esempio.

Da testimonial a influencer

Non c’è contraddizione, a mio avviso: in un’epoca di cambiamenti repentini e molto veloci, le persone scelgono persone e simboli nei quali riconoscersi. Non è quindi casuale che il concetto di testimonial si sia evoluto verso quello di influencer: i brand da sempre utilizzano i primi e stanno capendo i secondi, più vicini al pubblico, al consumatore finale, più neutri rispetto alle intenzioni (un testimonial, che è pagato dal brand già prima di aver provato un prodotto, risulta poco credibile).

Il mix è cruciale: i valori del marchio, gli influencer che a questo si avvicinano (o vengono avvicinati dai pr specialist), un pubblico, anzi decine o centinaia di pubblici che usano i brand, i social (quindi i canali), i prodotti stessi entrano in una rete di relazioni di reciprocità, avrebbe detto Weber, in modo assolutamente creativo e spesso non previsto. Tutto concorre a generare quella complessità che fatichiamo a dirimere, a interpretare.

Non ci si culli però nell’idea di un caro e piccolo mondo antico: l’arte prima del mercato era finanziata dal mecenate, spesso un agente politico. O siete davvero persuasi che Virgilio credesse alla discendenza divina di Augusto? Perché in questo caso sbagliate. E di brutto.

Certo, ci sono state alcune piccole età dell’oro: quando Hollywood si rese conto che stava invecchiando, ricorse ai piccoli artisti della New Hollywood, cresciuti e allevati dal misconosciuto e fondamentale Roger Corman. Il più famoso della nidiata? Steven Spielberg: volete davvero dirmi che non sono le scelte delle persone a indirizzare il mercato?

Magari a voi non piace, magari al commerciale Steven preferite altro, chessò, Polanski, Scorsese, Arthur Penn. Eppure le decisioni del pubblico di massa sono abbastanza chiare (ma non escludono la presenza di nicchie, grazie alle quali anche il cinema cosiddetto d’autore ha trovato collocazione, successo e fama).

Le dinamiche che i brand (personali o di corporation) innescano non sono diverse: c’è un legame emotivo, leve razionali o para-logiche, ricordi creati dal materiale narrativo. L’era del branded entertainment deve ancora nascere e mi ha già convinto.

All’orizzonte (e qualcosa abbiamo già visto) ci sono podcast, serie web, video più o meno virali: ma anche l’evoluzione dinamica del product placement (dove il prodotto posizionato nell’audiovisivo viene personalizzato sulla base dei gusti di chi sta guardando) in prodotti culturali non diretta emanazione del brand.

Insomma, chiunque può raccontare una storia che piace alle persone: un artista, un blogger, un marchio.

D’altra parte come si può dimenticare The Airport, il cortometraggio (fatico ancora a definirlo spot) di Nike, con regia di John Woo, dove il Brasile del 1994 palleggia in aeroporto e Ronaldo (quello vero) colpisce un palo inventato manco fosse un bambino.

Oppure The Cage, dove il mastino Edgard Davids, olandese arcigno, dirige le danze sotto gli occhi di un Cantona imperatore in un clima da incontro clandestino di MMA che cita il cinema action di quegli anni. Erano già perle narrative con un valore di per sé.

I brand, da anni, stanno cambiando l’intrattenimento.

Il punto è che ci si può fidare dei marchi, soprattutto se questi sono trasparenti, o se dimostrano di esserlo (la verità di qualcosa, però, è sempre difficile da individuare, scienza a parte).

Il futuro prossimo che ci aspetta è fatto di persone che diventano marchi, di marchi che si fanno persone, di pubblici che orientano utilizzi e consumi: grande è la confusione sotto al cielo, la situazione è eccellente.

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