L’attualità ci sfida ogni giorno. L’attualità è una bolletta stratosferica, e sappiamo quanto impatterà su di noi. È tutto molto diverso da tre anni fa. Eppure, forse oggi dovremmo sentire il doppio della forza che avevamo al tempo. Perché?
I due anni di pandemia, terribili per tanti aspetti, sono stati un potente corso di aggiornamento professionale, ma anche esistenziale. Ci hanno concesso di prepararci e adattarci, in qualche misura. Proviamo a spiegarlo con poche e significative parole chiave.
IERI. Lo scorrere dei mesi era bulimia di novità. Il verbo che ci sosteneva era “aggiungere”: nuove tecnologie, nuovi gadget, nuovi stimoli, nuove competenze. Aggiungere redditività sul lavoro e comodità in casa, più opportunità per noi, per il nostro futuro, per soddisfare le nostre sempre nuove necessità assurde.
OGGI. Il verbo di riferimento è “togliere”. Ma qui non si tratta di togliere per risparmiare denaro in attesa che tutto torni come prima. Si tratta di togliere per rimodulare, rivedere, o forse ribaltare tutto. Guardiamo al fenomeno delle Grandi Dimissioni, ovvero l’uscita volontaria dal lavoro di milioni di giovani con un posto sicuro: ecco la voglia diffusa di ribaltare tutto, di togliere il superfluo nelle proprie vite e nelle proprie aziende. Molti stentavano a comprendere il fenomeno, ma dovevamo solo aspettarci che le regole sarebbero state stravolte. Lo stesso abbiamo visto anche alla vigilia del conflitto russo-ucraino, che a pensarci bene ha avuto effetti simili alla pandemia. In entrambi i casi, per esempio, l’ufficio ha dimostrato di essere inutile e troppo “energivoro”.
IERI. Pensavamo alla sostenibilità come parte di una tendenza, una moda che tutti volevano seguire perché avrebbe fatto vendere di più. In pochi credevano che la febbre del green sarebbe entrata nelle nostre vite per non lasciarci più. La parola chiave era “carbon free”. Suonava bene, ma che cosa significava davvero?
OGGI. Ora sappiamo che la sostenibilità è un pezzo di quel ribaltamento che viviamo così intensamente. E lo sappiamo perché ora non ce la possiamo permettere, perché non risolveremo il problema dell’energia con un mulino a vento in casa. E invece vorremmo che fosse così. Ha preso piede in il termine “trasformazione”, ovvero guardare al mondo al contrario e cercare di farlo vedere così anche a chi ci sta vicino, ai colleghi, ai famigliari, ai collaboratori. È meglio? Non lo sappiamo ancora, ma apparentemente ne siamo entusiasti.
IERI. Ci siamo lasciati ammaliare e ubriacare con le luci di Las Vegas. Abbiamo visitato i templi del potere, Facebook, Apple, la Silicon Valley. Abbiamo portato il tutto nelle nostre quotidianità, ingegnandoci per trovare ovunque le risorse per creare innovazione nel nostro territorio.
OGGI. La parola magica, adesso, è “Africa”. Guardiamo quel continente giovanissimo, energetico, ricco. Guardiamo al Senegal, dove il ribaltamento è già avvenuto. Perché la vita quotidiana non dipende dalle difficoltà economiche, che pure esistono, ma da uno stile di vita creativo e dinamico. Come cantava Finardi l’anno in cui sono nato: «Voglio un pianeta su cui ricominciare». Forse per alcuni si tratta proprio dell’Africa, un nuovo luogo su cui investire per il proprio futuro e quello di tutti.
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