I talent show (senza Mara Maionchi) dicono ancora qualcosa ai millennial?

1 Dicembre 2020
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 Cresciuti più o meno insieme, i talent e i millennial hanno ancora qualcosa da dirsi?

Derivati dai reality, negli ultimi anni i talent show sembrano sempre più – per dirla facilmente insieme a Franco Battiato – alla ricerca di un centro di gravità permanente, schiavi di meccanismi che non possono non ripetersi all’infinito e forse limitati da certe dinamiche autoriali che puntano all’ecumenismo, in modo da coprire più target possibili, con il rischio concreto di non colpirne nessuno.

Difficile fare meglio di Mara Maionchi 

Nessuno discute la qualità delle produzioni televisive, né tantomeno i giudici coinvolti (o quantomeno non tutti), ma se di X-Factor si finisce con il parlare più per la diatriba intergenerazionale tra Manuel Agnelli e il rock e Hell Raton e la trap, è evidente che si gira un po’ a vuoto, e ai millennial viene a mancare un genere o una tipologia per i quali fare il tifo, davanti alla tv o sui social. Senza dimenticarsi che è difficile fare meglio in giuria di Mara Maionchi, fuoriclasse assoluta e che capisce di musica come pochissimi altri.

Probabile in realtà che la questione sia molto più semplice; concepiti come veri e propri spin-off dei reality show, i talent devono avere un’unica missione: funzionare da un punto di vista meramente televisivo. Far parlare di sé per il prodotto, non tanto per la musica o perché si sveli un potenziale masterchef piuttosto che un dj o un autore di libri.

Eh già, in passato ci sono stati programmi di questo genere dedicati a potenziali talentuosi deejay piuttosto che a novelli scrittori; e chissà quali altri format e quali altri tentativi stiamo tralasciando per non dilungarci troppo. A questo punto perché cercare di volare alto? Per gli amanti del genere possono bastare la Corrida e tutti i suoi derivati.

Un periodo senza novità nella musica

Chiaro, se si spera da X-Factor o da Amici escano a prescindere autentici fuoriclasse, la colpa non è delle produzioni televisive, ma di chi li guarda. Alla tv non si deve chiedere altro che un paio d’ore di distrazione, non l’ennesima opportunità per improvvisarsi “critici da divano sorseggiando un centrifugato” (magistrale uscita del Commissario Arcuri durante una delle sue innumerevoli conferenze stampa). Senza dimenticare che – quando si parla di musica italiana – siamo in un periodo storico nel quale le novità non abbondano.

Senza voler troppo infierire, si faccia riferimento a 33 Giri Italian Masters, lo splendido programma di Sky Arte dedicato ai migliori dischi della musica italiana, appena ripartito con la quarta serie. Otto puntate dedicate ad altrettanti album di Luciano Ligabue, Csi, Alice, Edoardo Bennato, Lucio Battisti, Carmen Consoli, Ornella Vanoni e Pino Daniele. Una selezione che ha potuto contare su un repertorio vasto, vastissimo, dopo che nelle precedenti edizioni ci si era dedicati per esempio a Franco Battiato, Lucio Battisti e Lucio Dalla. 

La trilogia “sole, cuore, amore”

Difficile si potrà dire altrettanto della library attuale: se i millennial italiani si sono salvati per il rotto della cuffia e possono allestire un proprio best of musicale inattaccabile, improbabile che le generazioni successive potranno fare lo stesso. Soprattutto se si continua a girare intorno alla trilogia “sole, cuore, amore” o ci si avvinghia ai trapper nostrani, versione alquanto scalcinata dei gangsta rapper americani anni novanta, alcuni dei quali si staranno rivoltando nella tomba per essere stati citati in questo contesto.

Per quanto possiamo rimarcare le differenze abissali tra loro e i più o meno inconsapevoli imitatori italici, il solo pensiero di coinvolgersi come metro di paragone è un peccato da parte nostra non veniale. Perché del resto stupirsi di un livello attuale così impalpabile, pompato quasi esclusivamente da abilissime operazioni di marketing e relative campagne social? In fondo “sono solo canzonette”, come già Edoardo Bennato aveva previsto nel 1980.

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