Generazione palle lesse? Grandinano critiche sull’impreparazione al lavoro della Generazione Z

18 Luglio 2022
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Processo alle carenze dei Duemila: un approccio troppo delicato alla formazione-lavoro rischia di metterli fuori dalle regole (dure) del gioco professionale. Le aziende e i manager si preparino ad accogliere la Generazione Z

A mettere il dito nella piaga è l’ultimo saggio di Jonathan Haidt, Perché gli ultimi 10 anni di vita americana sono stati straordinariamente stupidi. Lo psicologo provocatore, autore anche di Menti tribali. Perché le brave persone si dividono su politica e religione, (Codice Edizioni), oggi solleva più che un dubbio che il turnover generazionale sul lavoro possa diventare disastroso per la Generazione Z.

Secondo Haidt, durante il percorso educativo, la Generazione Z ha ricevuto più attenzione rispetto alle generazioni precedenti. Sono stati inseriti in un processo strutturato, fatto di stage extracurriculari, ed esperienze scuola-lavoro che hanno inibito la loro capacità di sviluppare grinta, perseveranza e capacità di incassare le critiche.

Ma Haidt non è l’unico a paventare i rischi delle carenze preparatorie della Generazione Z: le competenze relative al pensiero critico e all’interazione sociale sarebbero fortemente estranee ai ragazzi Zeta anche per gli enti di ricerca più accreditati.

Un’indagine condotta dalla Society for Human Resource Management (SHRM), ha evidenziato che la Generazione Z è piuttosto scarsa in:

  1. risoluzione dei problemi e creatività,
  2. capacità di affrontare la complessità e l’ambiguità ed efficacia della comunicazione.

Per il saggio di Haidt la colpa è delle generazioni dei Millennial e X che non hanno saputo equipaggiare la Gen Z per un futuro complesso. Lo psicologo inoltre richiama l’attenzione sulle implicazioni che ciò avrà per la democrazia, dato che la Gen Z si sta rivelando una importante forza elettorale, e fa notare l’impatto economico che questo fenomeno potrebbe avere quando la Gen Z entrerà in modo massivo nel mondo del lavoro e i Baby Boomers andranno in pensione.

GenZer: un esercito presto maggioritario in tutto il mondo

La dimensione della coorte della Gen Z supererà presto quella dei Millennial. Se oggi sono loro, i millennial a costituire la maggior parte della popolazione attiva degli Stati Uniti, le aziende dovrebbero darsi una mossa e cominciare ad adattarsi all’arrivo delle nuove reclute di 20-25 anni.

Non sono soltanto stereotipi: millennial e GenZer sono cresciuti in una società incentrata sul “bambino” e sono stati abituati a mamme e papà che li tengono per mano lungo la strada.

I colloqui del fanciullino

Tanto per dirne una, da circa cinque anni negli Usa è frequente che i genitori si uniscano ai colloqui di lavoro dei loro figli. E alcune aziende hanno persino creato iniziative dal titolo Porta i tuoi genitori al lavoro.

Ma qualunque sia stata l’infanzia della Generazione Z oggi negli ambienti di lavoro post-pandemia mancano forme di riconoscimento e connessione. Di conseguenza, perseguire la soddisfazione sul lavoro conta è un imperativo categorico per le aziende, che devono essere orientate alle persone. Diversamente, l’importanza operativa o organizzativa, perderà significato e forza.

Notisti e sociologi buttano benzina sul fuoco: i giovani lavoratori non sono solo stati ostacolati dai genitori e dalle pandemie per quanto riguarda la loro preparazione al posto di lavoro. Mostrano anche segni crescenti di ansia e stress a causa dell’uso dei social media, e questo si riversa sul posto di lavoro.

Studiare i GenZer su LinkedIn

Pensate i GenZer come un esercito di Tiktoker? È vero in parte: i nativi digitali infatti sono anche stati esposti più di altri ai problemi del mondo. E soprattutto si trovano oggi a misurarsi con i risultati di migliaia di coetanei nel mondo. Aggiungendo così nuove pressioni e ansie per essere all’altezza. Basta seguirli su LinkedIn, che in America è la piattaforma professionale preferita della Gen Z.

LinkedIn ha tassi di iscrizione in forte espansione tra i lavoratori più giovani e i primi Zeta al lavoro fremono per segnalare il loro successo e condividere news sul mercato del lavoro.

Il fenomeno GenZer al lavoro incontra un dato significativo: il 40% degli utenti di LinkedIn, cambia il proprio stato lavorativo ogni quattro anni. Il che introduce la convinzione che  il job hopping (saltellare da un posto di lavoro all’altro) già forte negli stessi millennial, sia un comportamento virtuoso.

Perché la cultura aziendale italiana rischia molto

Nel nostro Paese i costi di assunzione, la protezione dei posti di lavoro e gli alti oneri fiscali non hanno mai dato vita a un mercato flessibile. Ma c’è da scommettere che l’attitudine dei GenZer non si piegherà agli schemi del passato.

Il problema per gli imprenditori italiani potrebbe quindi diventare la gestione di lavoratori formati e subito in fuga. L’orgoglio aziendale e l’attaccamento al modello azienda come famiglia è ormai un ricordo dell’epoca olivettiana, mentre incombe l’enorme concorrenza di un mondo del lavoro globalizzato. Dove il mercato elastico, gli stipendi più elevati fin dall’inizio della carriera e l’abitudine ai voli low cost, rendono bello e possibile migrare per seguire nuove opportunità.

Sintesi generazionali (Courtesy Santomanifesto.it)

Inoltre se fare job hopping internazionale è diventato facile, l’effetto domino è dietro l’angolo: basta una storia di successo di un giovane collega neolaureato a spingere altri ad imitarlo e a fuggire da una cultura aziendale ingessata.

Lavoratori più avventurosi uguale Grandi Dimissioni

Come mostra una ricerca recentemente presentata da Fast Company: «I millennial e la Generazione Z stanno dimostrando di essere i principali protagonisti dietro il fenomeno delle Grandi Dimissioni».

Queste generazioni non sono per niente timide nell’inseguire nuove opportunità , e questo è particolarmente vero per la Gen Z, osserva US News:

«Lo studio della società di software e analisi dei dati Adobe ha rilevato che più della metà degli intervistati della Generazione Z è determinato a cercare un nuovo lavoro entro il prossimo anno. Gli intervistati hanno anche riferito di essere poco soddisfatti del proprio lavoro (59%), e dell’equilibrio tra lavoro e vita privata (56%).

Quasi due terzi di loro, il 62%, ha affermato di sentire la maggiore pressione a lavorare durante “l’orario d’ufficio”, mentre in modalità remota e al di fuori del normale orario sono capaci di dare il meglio di sé».

Sebbene il saggio di Haidt descriva i pericoli di troppa attività online e richieda di regolarne in qualche modo l’accesso prematuro, per la Generazione Z è tardi. I GenZer sono stati fortemente incoraggiati a creare profili LinkedIn come completamento della loro formazione e per mettersi alla prova nella ricerca di lavoro. Hanno appreso, per quanto in modo virtuale le dinamiche dei marchi, degli enti e dei manager che seguono.

E allora che cosa possono fare le aziende? La ricetta americana è: dare subito la caccia a quei lavoratori che non hanno soltanto bisogno di sviluppare competenze, ma che ricercano maggiore connessione con il mondo reale piuttosto che nel mondo virtuale .

I manager devono cominciare a conoscere a fondo le esigenze di questi giovani dipendenti. Devono sapere tutto sulle loro ambizioni future, su come si vedono tra 10 anni. Soltanto così possono provare a frenare le tentazioni di esplorare prospettive esterne.

Anche la cultura aziendale deve essere rifondata a partire dalle connessioni umane per garantire sia impegno che empowerment.

Per quanto controverso, il libro dell’intellettuale conservatore Thomas Sowell, Wealth, Poverty, and Politics esprime un concetto ineccepibile: «Diffondere i frutti del capitale umano non è fondamentale quanto diffondere il capitale umano stesso».

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