Raccomandiamo alla Generazione Z di scrivere articoli e scattare foto, non di «produrre contenuti»
La mania di rubare le parole da un’altra lingua o di italianizzarle goffamente, ha il vantaggio di mascherare la verità su se stessi per apparire più importanti, meno ordinari, ma ne vale la pena?
Oggi mi va di mettere al muro un paio di malefatte internettiane in termini di linguaggio. Veramente insopportabili. Tutti avete almeno una volta versato «il contenuto in una casseruola». Il “contenuto” è la parola che esprime il massimo possibile di indefinitezza ma con la quale oggi si definiscono gli articoli dei giornali, soprattutto online includendo in maniera del tutto arbitraria e proditoriamente egualitaria anche foto video, audio, spot, e così via, perdendo ogni possibile valutazione veramente professionale sull’origine dell’opera.
Contenuto è anche una brutta parola alla pronuncia. È una parola pessima non soltanto perché la adottiamo acriticamente dall’inglese del web marketing, ma perché non rende proprio l’idea di ciò di cui stiamo parlando e ci riporta quindi molto indietro rispetto all’evoluzione del linguaggio di cui l’Europa è culla. È oggettificazione pura di ogni cosa sia prodotta dal cervello. E anche se in termini linguistici la parola si usa da decenni, chi lo fa la abbina sempre per rigore al termine forma, dato che ogni pensiero od opera umana ha una forma e un contenuto. E in questo senso è non solo accettabile ma necessaria per separare ciò che si voleva dire da ciò che alla fine si è detto.
Contenuto è diventata una parola virus, ha contagiato solerti pubblici istruttori, legulei, pagelle, politici per i quali è un vero e proprio cancro, come “narrazione” del resto, che però, almeno è vocabolo italiano ed è meglio di storytelling.
L’altra parola englinet detestabile è “fact checking”. Aderisce molto bene alla smania di molti sbrodoloni da tastiera un po’ frustrati, di fare i maestrini, ma soprattutto consegna loro l’arma di una nuova professione, quella di eroe in maglietta bianca dedito alla neutralizzazione definitiva di quei cazzoni dei giornalisti, i quali, secondo loro, non avevano mai sentito e praticato la nobile arte della verifica delle fonti e dei fatti.
E siccome alla fine noi giornalisti abbiamo la coda di paglia, (perché di forzature ne abbiamo fatte tante, inutile negarlo), invece di rivendicare questo imperativo categorico professionale, abbiamo lasciato vincere i giovanotti in t shirt finendo per consegnare i lettori a questi personaggini dal nome che fa molto serie tv vichinga, ma che è abbastanza brutto lo stesso: “debunker”.
Come sempre rubare le parole da un’altra lingua ha il vantaggio di mascherare la verità su se stessi per apparire più importanti, meno ordinari, più spendibili nei social o nella società reale, sempre che ne esista ancora una ai tempi dell’on-life. In fin dei conti volete mettere presentarsi come debunker o fact checker invece che dire: «per vivere correggo bozze e verifico le fonti?».
Una ventina di anni fa avevo un collega che si era fidanzato con una ragazza brasiliana bellissima, davvero una meraviglia. Si era laureata da poco in biologia, ma non aveva tempo per le eterne gavette italiane e dunque lavorava come parrucchiera. Ebbene il collega non riusciva proprio a non mascherare la realtà, forse perché vittima della pungente snobberia dei circoletti giornalistici milanesi e la presentava tronfiamente come hair stylist.
Nessuno si senta sotto accusa, l’uso dell’inglese ad minchiam è qualcosa contro cui non vale nemmeno più la pena ribellarsi e io ne sono un tipico esempio, dato il mestiere che faccio e dato quello che pubblico su queste pagine. Ma benedico il momento in cui riesco a notare il senso del ridicolo in ciò che mi sta intorno. Fatelo anche voi, ogni tanto. Ne vale la pena.
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