Il futuro delle discoteche è diventare come i musei?

9 Maggio 2021
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Gli italiani sono esterofili all’ennesima potenza e i cosiddetti clubber non fanno eccezioni. Berlino, Ibiza, Londra: per loro tutto quanto arriva da queste realtà ha lo stesso valore delle Tavole di Mosé.

Sia chiaro da subito che tutte e tre sono riferimenti imprescindibili per quanto riguarda musica elettronica, discoteche e dj: da sempre sono località dove quello che succede, succede prima che altrove, con una serie di esempi più che virtuosi da un punto di vista artistico e soprattutto imprenditoriale.

Si pensi a casi scuola come Love Parade e Berghain di Berlino, Fabric di Londra, Hï e Ushuaïa a Ibiza. Esempi ai quali l’Italia guarda sempre con giusta ammirazione ma quasi mai senza estrapolarne significati e insegnamenti utili al settore, a chi ne fa parte e a chi lo frequenta.

 A Berlino le discoteche saranno siti culturali

L’esempio più recente? La notizia relativa all’imminente inquadramento dei locali berlinesi come siti culturali: “Clubs als kulturstätten anerkannt”, come riportato dalla deputata tedesca Caren Lays sul suo profilo Instagram.

Tutto questo porterà a distinguere i club in base alle loro attitudini – programmazione artistica e spazio a talenti emergenti, per esempio – e ad avere un trattamento più analogo ai musei che non ai bordelli, ci sia perdonata l’estrema sintesi. I relativi iter legislativi ed esecutivi sono agli inizi, i presupposti fanno ben sperare. Per chi volesse saperne di più, tutto quanto è riportato sul sito nighttime.org.

 

Il futuro delle discoteche in Italia

In Italia gli addetti ai lavori e i clubber hanno subito salutato con enfasi questa notizia, autentiche truppe cammellate che sembrano muoversi all’unisono, quasi mosse da un filo invisibile: avevano fatto lo stesso lo scorso fine settimana appena appreso del doppio evento-test in quel di Liverpool, del quale avevamo riferito in un precedente articolo e che è subito diventato «ecco in Gran Bretagna le discoteche sono aperte, da noi invece…».

Anche con la notizia appena arrivata da Berlino si sta rischiando lo stesso effetto. Poco male, se serve a mettere sotto i riflettori il dramma di un settore di fatto fermo da febbraio 2020, un comparto inquadrato con sommo pregiudizio sin dagli anni novanta a causa delle famigerate stragi del sabato sera, ascritte alle discoteche con una sorta di interpretazione in totale malafede della responsabilità oggettiva: un peccato originale dal quale la categoria – di fronte all’opinione pubblica e a gran parte dei media – non è mai stata in grado di affrancarsi.


Le discoteche come siti culturali anche in Italia?

Il quesito principale è però un altro. In base a quali parametri si stabilirà quale discoteca o club che dir si voglia avrà le stimmate del sito culturale? Chi determinerà se un locale sia appunto assimilabile ad un museo o ad un teatro? In base a quadri d’arte moderna appesi ai muri, a una programmazione inclusiva, a una serie di altri fattori quali l’organizzazione di più o meno noiosi simposi culturali all’insegna della cancel culture?

Già eccheggia nell’aria l’urlo morettiano… «no, no il dibattito no…». Nel mentre, sarebbe altrettanto utile interrogarsi una volta per tutte sul concetto italiano di cultura, su chi stabilisca che cosa ne possa o non possa farne parte, in base a quali parametri si debbano prendere certe decisioni.

Per come il sapere è stato gestito e divulgato nel dopoguerra e soprattutto negli ultimi 50 anni, l’idea che qualcuno tra i soliti noti – nonché autoreferenziali, va da sé – possa decidere che un dj che suona techno faccia cultura e chi fa ballare con il reggaeton o con il liscio no, fa abbastanza sorridere. E preoccupare, per quanto quest’ultimo esempio possa sembrare un mix tra provocazione e paradosso.

 

Un manifesto culturale per il rilancio del clubbing?

In realtà in Italia questo rischio non sussiste. Il settore è molto frazionato, ognuno ama ballare da solo, al massimo arriva a fare sistema sui social network, ma poi all’atto pratico si vive nello stato permanente che Thomas Hobbes definì «bellum omnium contra omnes».

In una cosa i titolari dei locali e gli organizzatori nostrani sono imbattibili: nello strapagare il dj straniero che ha appena ha suonato per la concorrenza. Sul resto, quasi sempre meglio sorvolare, salvo pochi casi virtuosi, autentiche eccezioni alla regola. Difficile pensare ad una sorta di manifesto culturale per il rilancio del clubbing – per quanto non siano mancati di recente alcuni interessanti tentativi in tal senso – quando nella maggior parte dei casi non si è nemmeno capaci di fare impresa. 

 

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