C’era una volta…a Hollywood è Tarantino alla tarantinerrima potenza

19 Settembre 2019
3923 Visualizzazioni

La cosa che si dirà più spesso a proposito di C’era una volta…a Hollywood di Tarantino è che “non succede niente”. “La trama non va avanti”. “Non c’è una vera storia”. Insomma, si parlerà del trito e ritrito style over substance. Ha senso però parlare così di un’opera così incredibilmente personale e intima?

Un’opera che altro non è se non la summa dello stile di Quentin Tarantino? No, non ce l’ha.

Un concentrato di tarantinità

Once upon a time…in Hollywood è il nono film del regista del Tennessee, presentato all’ultimo festival del cinema di Venezia e si pone sicuramente come la più peculiare delle sue opere: la meno Tarantiniana nella presentazione, ma la più Tarantiniana nell’anima.

Il film, ambientato nella sfavillante Hollywood del 1969, porta sullo schermo le vicende dei tre protagonisti senza costruire una storia definita intorno al loro mondo. Li segue semplicemente in quelli che sono frammenti della loro vita quotidiana, dando assoluta centralità alla loro caratterizzazione. Anche attraverso un massiccio uso di flashback, che aumenta la simpatia del pubblico.

Abbiamo Rick Dalton, interpretato da Leonardo DiCaprio, un attore in declino che cerca di sopravvivere nel nuovo star system che si sta andando a creare, campando di piccoli ruoli in serie TV e di whiskey sour.

Cliff Booth, controfigura di Rick e interpretato da Brad Pitt, stuntman ormai anche lui sul viale del tramonto che si arrangia come tuttofare e migliore amico di Rick.

La terza protagonista è Sharon Tate, interpretata da Margot Robbie, bella, giovane e spensierata, perfetta rappresentazione della new Hollywood.

Con la caratterizzazione dei personaggi e la loro ispirazione Tarantino fa capire le sue intenzioni, basando Rick su attori come Steve McQueen e altri meno conosciuti come Ty Hardin e Ralph Meeker. Anche il suo rapporto con Cliff è ispirato a quello tra Burt Reynolds e la sua controfigura Hal Needham.

Il film si presenta allo spettatore esattamente come una favola, con tutti gli stilemi del genere. Partendo dal narratore onnisciente, fino a una sorta di democrazia narrativa che mira a far conosce tutti personaggi allo spettatore, in alcuni casi anche con digressioni della voce narrante.

 

Finalmente è arrivato il momento di farci pxmpini a vicenda?

Dopo l’excursus iniziale, Tarantino prende il sopravvento, costruendo due terzi del film come un lungo e soddisfacente omaggio alla terra dei sogni con la quale è cresciuto e che ha segnato la sua vita, partendo dal lavoro al negozio di VHS fino a Le iene. Regista e direttore della fotografia (Robert Richardson) infatti fanno un lavoro egregio nel mostrarci una Hollywood accogliente e ammaliante. Grazie ad un utilizzo di colori caldi e alla scelta di girare con una Kodak 35 mm per restituire quella sensazione di “sgranatura” e calore tipica dei film in technicolor dell’epoca, non cedendo alla psichedelia stereotipica dell’ambientazione rendendo così la narrazione pulita e lineare.

È proprio con la sua maestria tecnica e conoscenza del mondo del cinema che Tarantino riesce a rendere perfettamente su schermo tutti i generi che ha amato, accentuando ogni volta i loro tecnicismi in modo da renderli immediatamente riconoscibili. Non solo però nei flashback dei film interpretati da Rick Dalton, in cui l’omaggio tecnico si fa anche strumento utile alla narrazione (ad esempio l’uso di super 8 e 16 mm direttamente in bianco e nero per i western). Ma anche nella trama principale in maniera però più sottile. Come l’uso di un montaggio appartenete ai film di arti marziali o la presenza dell’ormai abusato Dutch tilt per accentuare le situazioni di forte tensione.

Delle capacità con la macchina da presa di Quentin Tarantino si potrebbe parlare per ore. E in questo film pieno di “niente” flexa i suoi muscoli da regista, con scelte che meriterebbero un’analisi precisa, quasi accademica. Che però è meglio evitare per non creare una narcolessia generale.

Nonostante regia e fotografia siano di prim’ordine, la sceneggiatura è sicuramente la colonna portante di questo film. Con una fortissima dose dell’umorismo tarantiniano. Una sceneggiatura composta esclusivamente di dialoghi al fulmicotone che ammaliano pur essendo “vuoti”. Esatto, niente lezioni da imparare, pochissime battute memorabili. Tarantino esaspera la lezione del “Royale con formaggio” fondando tutti i suoi dialoghi su un carisma ed una verve innata che fanno breccia nello spettatore.

Dialoghi “vuoti” recitati da un cast perfettamente assemblato. In particolar modo Pitt e DiCaprio che ancora una volta danno prova di essere tra i migliori attori della loro generazione. Soprattutto se diretti da un vero e proprio gigante dell’industria cinematografica.

C’era una volta…a Hollywood è la malinconica lettera d’amore ad un mondo che non c’è più, con le sue luci e le sue ombre, da parte di uno dei suoi figli più amorevoli. Un’opera che rischia di essere l’epitaffio artistico di un grande regista, che fa capire quanto triste sarà il mondo senza i film di Quentin Tarantino.

 

 

Leggi anche:

Exit mobile version