Ecco perché ho lasciato Netflix (e altre storie sulla cultura tossica del lavoro)
Perché lasciare Netflix? C’erano una volta i colletti bianchi e le tute blu, in un mondo che seguiva gli orari da ufficio. Si iniziava alle 9, si finiva alle 5; il weekend si passava in famiglia, a dicembre arrivava la tredicesima. Il lavoro era ciclico, finita la carriera si andava in pensione, e si viveva per sempre felici e contenti.
Poi qualcosa è andato storto. Terribilmente storto. Capitalismo spietato, crisi finanziaria del 2008, una pandemia e una guerra. L’assetto sociale è venuto meno, e così una stabilità, nel privato e nel lavoro. C’è un colore che ha sostituito i classici blu, bianco e verde dollaro: si tratta dell’oro. Gli anglosassoni le chiamano ‘Golden handcuffs’, le manette dorate, e sono tutti i benefit che le aziende regalano ai dipendenti, affinché restino dove sono e non cambino compagnia.
La storia di Michael Lin rientra nel ciclo narrativo delle ‘dimissioni volontarie di massa’, iniziate subito dopo la fine della seconda ondata pandemica. Il 2021 è stato l’anno dei licenziamenti, perché le persone hanno finalmente capito che non si può vivere per lavorare. Lin ha spezzato le manette dorate, e facendolo ha detto addio a Netflix e a uno stipendio di $450k annui, il sogno di qualsiasi millennial.
Non fare l’ingrato
“Quando ho lasciato Netflix tutti pensavano che fossi pazzo – racconta Lin su Medium – I miei genitori sono stati i primi a opporsi, avendo vissuto la fame e la rivoluzione culturale cinese, pensavano che stessi buttando via i sacrifici fatti per arrivare in America”. Ma nonostante i consigli e le esitazioni, Lin ha realizzato che uno stipendio da mezzo milione di dollari all’anno non era più sufficiente per restare in azienda: “Ci sono stati 3 fattori che mi hanno convinto a liberarmi delle manette d’oro, – prosegue – fattori che mi hanno fatto capire il loro reale costo, e che i soldi non sono tutto”.
All’inizio sembrava un dottorato. Lin apprezzava il suo ruolo in Netflix perché veniva pagato e imparava: “Mi sentivo parte del processo decisionale, tutte le informazioni sui nuovi prodotti erano disponibili per i dipendenti. Era fantastico!”. Poi le cose da imparare sono diminuite, fino ad annullarsi, e i giorni hanno iniziato a diventare noiosi. “Ho chiesto di essere spostato internamente, volevo cambiare team e ricominciare a imparare da zero. Ma la mia richiesta è stata negata, e credo che il rifiuto abbia pesato molto”.
È stato a quel punto che il salario ha cominciato a pesare: se all’inizio sembrava un ottimo affare, a distanza di 4 anni era diventato l’unico centro gravitazionale che teneva Lin legato all’azienda: “La mia motivazione è svanita, la mia performance diminuita. Avevo ridotto al minimo il lavoro e mi trascinavo letteralmente ai meeting. L’unica obiettivo che avevo era quello di non essere licenziato“. L’ultimo fattore scatenante? Sì proprio lui, il Covid.
Cambio di priorità aka perché lasciare i lavori tossici non è solo un’opzione
“La pandemia è stata come una chiamata – spiega Michael Lin – vedere in televisione migliaia di persone morire mi ha fatto capire che il domani non è scontato”. Le sue priorità sono cambiate improvvisamente, o meglio, sono tornate ad essere quelle di un normalissimo millennial alle prese con gli anni della gioventù: “Dare valore agli anni migliori della tua vita non ha prezzo, e solo perché sono intangibili e difficili da quantificare non significa che valgono meno dei soldi”, conclude.