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L’importanza degli hashtag: davvero un #metoo migliorerà il mondo?

Moda o panacea?

23 Ottobre 2017
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Abbiamo già potuto appurare, sul lungo periodo, l’importanza degli hashtag di volta in volta di moda: dal #Jesuis, sparito dopo una settimana, al #prayfor, di durata anche inferiore. Da un paio di settimane è il turno del #metoo. Ma serve  a qualcosa comprimere emozioni e storie in qualche lettera preceduta dal “cancelletto”?

Gli hashtag sono mode o la panacea? Dopo lo scandalo di Hollywood, in cui il regista Harvey Weinstein è stato accusato dalle sue colleghe di molte violenze sessuali, l’eterno e terribile problema della violenza sulle donne sembra esser appena stato scoperto.

Ma che c’è di nuovo? Esattamente nulla, ogni giorno sentiamo innumerevoli storie di abusi e violenze sulle donne, anzi la maggior parte neanche le sappiamo per il sofferto silenzio. Ma è triste pensare che in questi ultimi giorni non si è parlato d’altro, solo perché le vittime in questo caso erano ben note nel mondo e facevano discutere tutti noi.

Ciò che pero è ancora più triste è vedere come il mondo social si è subito guadagnato una posizione predominante sull’argomento ed ecco l’importanza degli hashtag. Questa volta la moda (perché altro non è) è stata lanciata dall’attrice americana Alyssa Milano.

Il suo tweet spiega come #metoo vuole far capire la grave entità del problema e di quante donne hanno subito almeno una volta nella loro vita molestie sessuali.

Ora bisogna capire cosa significa subire molestie sessuali. Secondo il blog Everyday Feminism, un uomo che non conosce una donna ma giudica la sua apparenza fisica la sta automaticamente sessualizzando. Se, per esempio, un uomo ti dice che hai un bellissimo sorriso, ti sta molestando. Ma ora mi chiedo, quando il tipo che vi state spizzando da due ore in fondo al bar viene da voi e vi dice che avete dei bellissimi occhi, è molestia? C’è poca chiarezza, e infatti molte donne si sono sentite parte del #metoo a sproposito.

Come dice il detto, non si può fare di tutta l’erba un fascio, e infatti non si possono paragonare l’occhiolino di uno sconosciuto con un’adolescente rapita e stuprata. E’ irrispettoso e superficiale. Non si può fare di un trauma, così delicato e privato, un trend social, perché è disgustoso. Non è una condivisione, non è la chiacchiera con un’amica o una confidenza, è una massacrante sfilata, o meglio una walk of shame. Cosa si spera di ottenere enfatizzando l’iportanza degli hashtag? Solidarietà e visibilità sui social? Purtroppo ormai, ci nutriamo anche di questo e inconsciamente siamo spinti alla ricerca dell’approvazione e sostegno di Facebook, Twitter, Instagram e compagnia bella.

Gli uomini vi risponderanno con #ihearyou, che lo trovo altrettanto insensato. #miascolti? Cosa ascolti? L’hashtag non richiede il racconto o descrizione della propria tragedia, perciò al massimo si potrebbe dire #tisonovicino, che forse è ancora più freddo e insensibile. Davvero siamo arrivati a trasmettere emozioni tramite gli hashtag?

Qui si tratta di donne traumatizzate che in questi giorni hanno dovuto rivivere il momento più brutto della loro vita, donne che hanno dimostrato una forza enorme nel superare qualcosa d’insuperabile, ma allora mi chiedo perché a distanza di tempo spiattellare la propria intimità e fragilità al mondo intero?

Usciamo da questo mondo virtuale, e riprendiamo in mano la nostra realtà. Vogliamo aiutarle? Non è certo idolatrando l’importanza degli hashtag che scongiureremo definitivamente il ripetersi di questi crimini.

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