La guerra vista dai social network fa saltare tutto, compresa la censoria razionalità degli algoritmi.
Un soldato si posta su tiktok mentre balla sulle note dei Bee Gees in mezzo a una mulattiera innevata tra i campi dell‘Ucraina. Un’influencer posta un’immagine di lei in tenuta sexy da yoga seguita da un copy all’apparenza schizofrenico: «Gli ucraini volevano dimagrire in vista dell’estate, ma ora non sanno se quando arriverà l’estate saranno ancora vivi».
È la guerra ai tempi dei social, bellezza. Fa saltare tutto, compresi i cervellotici filtri degli algoritmi, che sanno riconoscere un capezzolo, ma non la scena di un un uomo in bicicletta colpito da un razzo.
Un giro di social network e sei dentro un vortice di follia assoluta: Un ragazzo nudo e ubriaco nella neve che bagna la freccia di un arco della Decathlon dentro la benzina e distrugge un’Audi blu. Altri ancora ci fanno sapere che la gloriosa squadra di calcio Dynamo Kiev è pronta.
Qualcuno ricostruisce la retorica fotografica con bambini che si abbracciano, altri a manina che fanno il saluto militare lungo la strada piena di colonne di tank. Altri ancora ci fanno pensare a qualcosa che ci ferisce: che fine faranno i nostri animali d’affezione?
Non c’è difesa da questa deriva. I social network nati sulla libertà della tecnologia si scontrano con tutte le loro potenzialità: quella di amplificare un messaggio di pace e quella di metterlo in ridicolo nel giro di due scroll.
La disintermediazione, il meccanismo che ha fatto fuori tutti i mass media, lascia tutti da soli con se stessi a decidere cos’è etico e cosa no. Che cosa possiamo guardare senza ridere, che cosa possiamo ricavare da un video shock, di che cosa dobbiamo più preoccuparci durante una guerra che ci coglie dentro un centro estetico.
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