Quest’anno più che mai le cinque giornate di festival sono state una celebrazione della musica italiana. Un motivo, quello del rendere omaggio ai grandi del passato, reso quasi ridondante.
I concorrenti si presentano, per lo più, con canzoni che non si inquadrano in generi precisi, ma tuttalpiù – onorando il carnevale – si travestono con un’aria pretenziosa. Partendo dal presupposto che io di musica, esattamente come lo spettatore medio di Sanremo, non ci capisco niente, mi sento di dire che facciano eccezione un Pelù quanto mai coerente e un Raphael Gualazzi genuino, travolgente. Sono, però, Tosca e Gabbani, due nomi già a tutti ben noti, le vere rivelazioni di questo Sanremo 2020 e ora vi spiego perché.
Ho amato tutto di Tosca
Tosca, con Ho amato tutto, ci fa sfiorare l’idea di un paradosso temporale e di fronte all’eleganza ed alla pienezza delle sue interpretazioni l’autotune sembra scomparire nel dimenticatoio. Una signora del Belcanto, come l’ha definita Savino nella notte fonda dell’AltroFestival, ha dato vita ad esibizioni emozionanti, riuscendo a riempire il palco semplicemente con sguardo e qualche gesto delle mani. Inquadratura a mezzo busto, ferma dietro l’asta, luci ferme, uno scollo contornato di piume sottili firmate Franco Ciambella. La terza serata è stata, per me, pelle d’oca dal primo accordo di pianoforte!
Viceversa di Francesco Gabbani
Le percentuali del televoto eleggono Gabbani, con Viceversa, vincitore. E vestono della medaglia d’argento i Pinguini Tattici Nucleari, lasciando un terzo posto poco luccicante, con parecchi voti di scarto, al caro Diodato. Se per l’emergente e frizzante gruppo bergamasco è senza alcun dubbio stata la freschezza la carta vincente, come spesso accade al festival, con Gabbani la situazione si fa più interessante. La canzone Viceversa presentata a Sanremo 2020 è totalmente diversa da Occidentali’s Karma che l’aveva reso vincitore tre edizioni fa in virtù appunto della spensieratezza di cui sopra.
Viceversa appare come un brano più profondo, ma – e qui il miracolo – straordinariamente leggero, in cui un’emozione viene analizzata con una semplicità sconvolgente, priva di tutta quella retorica e di tutte quelle pretese. Con Gabbani torna finalmente l’immagine del cantante – o più in generale, dell’artista – che si assume l’oneroso compito di provare a spiegare un sentimento, ricercando immagini che permettano di partire dal personale per parlare dell’universale, arrivando, in modo più o meno chiaro, al cuore di tutti.
Ma alla giuria demoscopica ed alla sala stampa il travestimento di molti è piaciuto, in pochi tra loro hanno saputo resistere alla libidinosa tentazione di erigersi ad elettori sofisticati. Ahimè, cari giurati, mi tocca rompere la vostra bolla del disincanto. Diodato è stata – anzi è sempre stata, dal primo istante – la scelta più mainstream di tutte, lì dove per mainstream si intende una banalità antipatica e addirittura un po’ fastidiosa. Sì, perché esiste una banalità brutta e poi ce n’è una bella, che in questo caso appartiene al popolo del televoto. Mai prima d’ora ho abbracciato così tanto l’idea del populismo, che a Sanremo 2020 si è fatto espressione della volontà di ricominciare a dare peso alle cose, partendo proprio da quelle non fisiche, del desiderio di imparare di nuovo – finalmente – a sentire e quale modo migliore per farlo, se non attraverso la musica?
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