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Il femminismo pop da social network è un cosmetico in tubetto per le coscienze

24 Novembre 2020
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Talvolta ci si registra sui social per curiosità e svago ma ci si ritrova a produrre una quantità pazzesca di contenuti ogni giorno, a velocità forsennata, perché siamo content creator. Creare contenuti non ha un valore morale in sé, è un’azione. La differenza la fa ciò che si pubblica e, non di rado, ancora di più chi pubblica cosa.

Su Instagram, per esempio, è pieno di profili di persone femministe, di pugni chiusi su sfondi viola e slogan in inglese, uno fra tutti: “smash the patriarchy!”.

Retorica, inglesismi e grafica molto Tumblr, senza scavare troppo, altrimenti si sente solo l’eco di qualcosa spesso capito pure male.

Che cos’è il femminismo pop?

È una narrazione piuttosto ricorrente, ormai, che potremmo catalogare come “femminismo pop”. E che – anche quando animata dalle migliori intenzioni – spesso non è capace di alcuna autocritica, anzi, si è perfettamente innestata in una meccanica polarizzata tipica del social media.

Le aziende però se ne fregano, tanto hanno capito subito il potenziale di questo racconto e lo sfruttano a proprio vantaggio. Tant’è che si parla a seconda dei casi di “brand-feminism”, “femvertising” o “corporate feminism” e su di essi ci sono opinioni divergenti anche all’interno dei dibattiti femministi. Perché, ricordiamolo, non esiste un solo femminismo, ce ne sono anzi diversi, alcuni fortemente in contrasto fra loro soprattutto circa il lavoro sessuale, la pornografia e il transgenderismo.

Femminismo in tubetto

In sostanza si tratta di marchi (dalla moda, alla cura del corpo ai media: Nike, Dior, H&M, Dove, Nuvenia, Gillette, Freeda fra gli altri) che mutuano termini e concetti femministi per promuovere i propri prodotti.

A un primo sguardo si potrebbe pensare: “Vendere per vendere, meglio veicolare messaggi di empowerment femminile” (quanto ce piace l’empowerment!). Ma si tratta di una banalizzazione che non ha alle spalle una coscienza e di frequente siamo davanti a operazioni di pinkwashing, usato sia per le battaglie femministe che LGBTQI+. In quest’ultimo caso si parla anche di rainbow washing e da anni si parla di quello del governo israeliano.

 

La mia è – a sua volta – una semplificazione della questione, ma che mi porta al fulcro del mio discorso ossia: Come si parla di femminismo sui social media?

Dal mio punto di vista il femminismo affrontato in questo modo sembra mera propaganda.

I libri pop femministi contemporanei da leggere

Ci sono molti volumi interessanti usciti negli ultimissimi anni, per esempio “Manuale per ragazze rivoluzionarie” (Rizzoli) di Giulia Blasi (che quest’anno ha pubblicato “Rivoluzione Z – diventare adulti migliori col femminismo”, sempre per Rizzoli), “Tutte le ragazze avanti” (add editore) di Giusi Marchetta, (questi titoli e le loro copertine strizzano l’occhio a un pubblico giovanissimo), “Il corpo elettrico” (Tlön) di Jennifer Guerra al suo debutto in libreria, dire che il femminismo sia e riguardi solo le donne è una sciocchezza e, quando sento espressioni come “le femministe”, mi si accappona la pelle, per fortuna degli uomini che ne parlano in modo intelligente ci sono, uno di questi è Lorenzo Gasparrini che ha pubblicato “Diventare uomini” (Settenove) e “Non sono sessista ma… il sessismo nel linguaggio contemporaneo” (Tlön).

Questi sono alcuni testi utili da tenere in considerazione per un approccio soft al femminismo, ma è importante sia andare a ritroso per scoprire la storia dei movimenti femministi che affrontare significativamente ogni ondata. Quello che raccontano i suddetti libri è uno spaccato attuale con qualche riferimento al passato, ma è necessario che siano considerati input e non volumi autoconclusivi.

Come capire il femminismo?

Per capire il femminismo, come qualunque altra teoria filosofica e politica, non basta leggere esclusivamente i capisaldi, seguire le teoriche che ne hanno discusso e teorizzato, appunto, ma bisogna conoscere i contesti storici, economici, politici, culturali, religiosi, geografici. Non possiamo semplicemente prendere un volume degli anni ‘70 e portarlo nel presente come se nel frattempo non fosse cambiato nulla, così come non possiamo considerare i libri sopra citati e i contenuti social di cui parlavo prima come emblema del femminismo contemporaneo.

Ciò che è pop non può che essere approssimativo.

Volersi fare capire da chiunque è una chimera, a meno di rinunciare alla complessità, che non significa rinunciare a esprimersi in modo incomprensibile, ma piuttosto ragionare in modo articolato.
Il femminismo sui social potrebbe creare brecce, esortare all’approfondimento presso altre sedi, alla riflessione per interiorizzare i concetti senza doverli condividere subito. Ma – è evidente – che questa mia speranza si contrappone alla natura stessa del mezzo.

Questo non significa che non si debba parlare in assoluto di femminismo sui social, ma bisogna che capiamo che la complessità risiede altrove, che costa tempo e fatica e che – se vogliamo provare a comprendere ciò che è complesso – dobbiamo sacrificare il tempo altrimenti destinato alla nostra ansia performativa di content creator.

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