Storia del giornalismo spazzatura: il libro degli anni 80 che anticipa le fake news
«Puoi farmi un pezzo su una donna che partorisce dei cagnolini?». «Per quando ti serve?». «Per le cinque». Presi un appunto sul mio taccuino, Donna partorisce cagnolini, e lo inserii tra le altre cose che dovevo fare quel giorno
Per capire la storia del giornalismo spazzatura c’è un libro fondamentale. Si intitola La Gazzetta di Mezzanotte. Se l’autore, William Kotzwinkle, non vi dice niente, non siete più ignoranti del 99,9% degli italiani.
Nonostante sia lo sceneggiatore che ha inventato E.T., infatti, in Italia William Kotzwinkle ha pubblicato soltanto La Gazzetta di mezzanotte, grazie a un editore di cui oggi sentiamo la mancanza, Leonardo Mondadori, morto nel 2002 a 56 anni.
Colto ed esperto di leggerezza intelligente, Mondadori nel 1991 una volta venduta tutta la baracca editoriale a Fininvest si dedicava al suo gioiello, la piccola casa editrice Leonardo, nata nel 1988.
Leonardo Mondadori era soprattutto un editore accogliente, nel pensiero e nel lavoro. Era uno che amava intrattenersi con i suoi dipendenti di ogni rango, adorava i cani bulldog inglesi e le donne belle e creative.
E nonostante da bambino si trovasse spesso in salotto con gente tipo Thomas Mann, Giuseppe Ungaretti, Dino Buzzati o Eugenio Montale, non si lasciava sfuggire nomi emergenti e dissacratori della narrativa dell’epoca.
Per questo bisogna leggere la descrizione esilarante delle redazioni dei giornali trash, presso la Camaleonte edizioni di New York, teatro d’azione della Gazzetta di Mezzanotte. Un ambiente di autentico giornalismo spazzatura abitato da redattori pazzi ossessivi catapultati in mezzo a vicende assurde.
Redattori inseguiti da pornostar, ritoccatori di capezzoli e venditrici di creme verdi fosforescenti per far crescere le tette. Un quadretto che non poteva che riflettere il modo in cui Mondadori vedeva o aveva sempre visto gli ambienti dei giornalisti, finti intellettuali degli anni 80.
Nell’arguzia rutilante di questa storia però c’è molto altro: c’è qualcosa che, letto in un libro del 1989 arrivato in Italia nel 1993, rispecchia la follia che pervade oggi interi corpi redazionali digitali, appesi al guinzaglio di inserzionisti che chiedono l’impossibile e incastrati nella pressione sconfinata sulla marchetta totale.
Giornaliste e giornalisti misurati nella velocità di esecuzione dettata dalle ricerche su Google, concentrati sull’idea di accontentare gli utenti unici, entità che non hanno le sembianze imaginifiche e antico-greche e peripatetiche dei vecchi lettori di giornali.
Di seguito, un brano nel quale, con le dovute distinzioni, si possono riconoscere gli operai del content editing di oggi, gli intrappolati dentro lo strano caporalato dei data analyst, gli oppressi dalla dittatura dei branded content e delle call to action su facebook.
A nessuno, tuttavia, sfuggirà la distonia più significativa, ovvero che in quelle redazioni di giornalismo spazzatura, la gente sembra divertirsi da morire. E probabilmente è così.
Un ultimo appello agli editori di buona volontà: qualcuno legga o rilegga questo libro e lo ripubblichi il prima possibile. La Gazzetta di Mezzanotte vendette pochissimo e dopo poco tempo tutte le copie invendute finirono al macero.
Troverete su Amazon diverse copie in inglese, ma è un peccato non godere della traduzione magistrale del decano dei traduttori, Vincenzo Mantovani.
«Entrai dalla porta principale delle Pubblicazioni Camaleonte. Hyacinth, la receptionist, stava applicandosi dei cerotti ai calli. “C’e una lettera per te di quell’avvocato, Howard”.
La scorsi rapidamente, vidi che ci avevano fatto causa per un milione di dollari e tirai dritto fino alla mia cella. L’ufficio fronteggiava la Società Marcatempi di Manhattan, con il suo immenso tabellone sbiadito che cominciava a staccarsi; attraverso le sue finestre si vedeva una specie di gnomo che, al suo banco, stava riparando il tempo.
Sotto di noi c’era it tratto fiorito della 6th Avenue. Una pioggia leggera cadeva sulle piante allineate lungo i marciapiedi, con le gemme e le foglie volte al cielo per ricevere tutti gli elementi velenosi della tavola periodica. Aspirai una profonda boccata di tossine rinfrescate dalla nebbia mattutina e mi girai verso la scrivania.
Sparpagliate dappertutto c’erano delle foto di donne nude, poiché, tra i loro periodici, le Pubblicazioni Camaleonte comprendevano Tette e Culi. Ognuna delle donne nude sulla mia scrivania aveva un reggiseno disegnato con l’aerografo sul petto e lo slip di un bikini applicato con lo stesso sistema sopra la regione pubica, un tocco da maestro aggiunto da Fernando del nostro ufficio grafico.
Avevo comprato quelle foto da Herr von Germersheim, un mercante d’arte tedesco che visitava regolarmente i nostri uffici con una borsa piena di studi di nudo. Dopo l’acquisto, le Pubblicazioni Camaleonte aggiungevano alle signorine la biancheria. Perché? Il nostro editore era convinto che, nel nuovo clima di repressione fondamentalista, Playboy, Penthouse e tutte le altre riviste che pubblicavano foto di donne completamente nude alla fine sarebbero state spazzate via dalle edicole, mentre le nostre ci sarebbero rimaste, con le loro ragazze che si pavoneggiavano nei minuscoli bikini prudentemente aggiunti. “Quando si verificherà la svolta noi ci saremo” mi aveva detto, con un’innata capacita di sfornare idee sbagliate cosi acuta da rasentare it genio.
Sulla mia scrivania c’era una lunga placca rettangolare che portava it mio nome, HOWARD HALLIDAY, per impedirmi di dimenticarlo tra le molte identità che assumevo da una settimana all’altra. Dato che, per fare economia, non compravamo mai materiale esterno da nessuno, la nostra piccola redazione doveva scrivere tutti i testi e noi tutti avevamo molti nomi, talvolta perfino gli stessi, anche se negli ultimi tempi si era cercato di coordinare meglio il lavoro.
Avevo assegnato a ciascuno di noi una lettera dell’alfabeto da cui scegliere i nostri noms de plume, e finora quel mese ero stato Howard Haggerd, Halberd Hammertoe, Harm Habana, Hades Halston, Handy Harley, Harmon Heman, Hence Hardman Hardon.
Bevvi il mio caffè mattutino e mangiai la mia brioche, mentre con occhi velati contemplavo la scrivania. Dal piano le donne ritoccate ricambiavano il mio sguardo. Molte le conoscevo di persona. Qualche volta mi chiedevano soldi in prestito, ma più spesso glieli chiedevo io, perché erano pagate meglio di me.
Anomalie genetiche e serpenti nell’intestino: la filiera del giornalismo spazzatura
Alla parete della mia cella erano appese altre fotografie, di atrocità, anomalie genetiche umane e animali, e tutti gli altri frammenti di vita in cui incappa un direttore di periodici, e dei quali si serve quando e dove possono valorizzare le sue pubblicazioni. Spesso, per quelle immagini, i fotografi rischiavano la vita, e io in cambio li pagavo meno che potevo.
Finito il caffe, inghiottii alcune mentine alla caffeina e cominciai la mia attenta lettura quotidiana degli Studi di grammatica di Agnes T. Wimple, 1924 circa. Con quelli ero in grado di analizzare schematicamente tutte le frasi complicate che scrivevo per le nostre riviste. Ogni frase era, dunque, grammaticalmente perfetta, una finezza di cui non credo che i lettori di Tette si accorgessero sovente.
Qualcuno bussò alla porta del mio bugigattolo e Fernando entrò con un nuovo layout. “Ecco qua, ragazzo, tutto pronto perché tu ci metta qualche parola”. Davanti a me c’era una donna nuda, modestamente aerografata ma seduta con aria provocante sulla sella di una bicicletta a dieci velocità.
Sotto ogni foto della ciclista Fernando aveva lasciato delle righe vuote, la lunghezza e it numero delle quali determinavano la misura del testo che avrei dovuto scrivere sulle gioie di pedalare nudi. Questo sarebbe stato, a sua volta, uno dei testi della rivista Culi, redatto sotto la guida della defunta Agnes T. Wimple.
“Sono stanco, ragazzo mio”, disse Fernando, lasciandosi cadere sulla seggiola riservata ai visitatori. “Perche, cos’hai fatto?”, “Ho lavorato al mio portfolio. Voglio trovarmi un buon posto in una rivista vera”. “Culi è una rivista vera, Fernando”. E masticai un’altra mentina. “Squinzie”. “Squinzie?” “Squinzie”, accennò con la mano alla ciclista seminuda.
“Tutte squinzie”, indicò anche altri layout sparsi sulla scrivania, per i quali avevo già scritto un certo numero di spensierate didascalie che facevano appello alla perspicacia del lettore.
Dal muro alle mie spalle giunse un tonfo improvviso. Significava che il nostro editore, Nathan Feingold, si stava esercitando con la sua cerbottana. L’aveva ricevuta da uno degli inserzionisti della nostra rivista Uomo Macho, decisamente popolare tra le squadre di mercenari.
Con lo pseudonimo di Howard Hachett, pilotavo ogni mese Uomo Macho fino all’ultima boa, ed ero in corrispondenza con un’infinità di mangiatori di serpenti. Uno dei quali mi aveva spedito una pistola-balestra nell’eventualità che mi fosse mai toccato di dover “ammazzare silenziosamente qualcuno”. Cosa che allora mi sembrava assai improbabile, il che dimostra quanto fossi ingenuo, ma su questo torneremo poi. Fernando guardò verso il muro, dove con piccoli tonfi continuavano a piantarsi le freccette.
«Non pensare di lasciarci, Fernando, per piacere, abbiamo bisogno di te.» Come potevo dirgli che Esquire, Vogue e il New Yorker non avrebbero saputo cosa farsene di un uomo la cui esperienza di lavoro era consistita, fino a quel momento, nel dipingere reggipetti sui capezzoli di ragazze nude? “Quando avrò finito il mio portfolio darò a questo posto un bel bacio d’addio”.
Un altro tonfo. Certe volte mi preoccupavo inutilmente, ne sono sicuro, che un dardo avvelenato perforasse la parete e mi si conficcasse nel cervello. Fernando lasciò il mio bugigattolo e io ripresi le mie meditazioni, mentre l’ufficio tornava lentamente alla vita.
Nella cella accanto alla mia, il direttore del nostro redditizio settimanale, La Gazzetta di Mezzanotte, stava scegliendo alcune foto di divi del cinema e di atleti, scartabellando nel raccoglitore delle immagini “d’interesse umano”, con i suoi toccanti ed eroici idioti, madri di quattro anni, persone salvate dai loro animaletti, oltre al solito ermafrodita e a un tale che nell’intestino aveva un’anguilla viva.
Tutti gli articoli della Gazzetta di Mezzanotte erano frutto dell’ingegno di questo direttore, Hip O’Hopp, un anziano giornalista che non avevo mai visto sobrio. Allungando il collo, mi guardava da sopra it divisorio che separava le nostre due celle. «Puoi farmi un pezzo su una donna che partorisce dei cagnolini?» «Per quando ti serve?» «Per le cinque.» Presi un appunto sul mio taccuino, Donna partorisce cagnolini, e lo inserii tra le altre cose che dovevo fare quel giorno.
Il redattore multitasking tipico del giornalismo spazzatura e delle fake news
Nei panni del dottor Howard Husbands, dovevo curare la rubrica medica per Donna Mese, la nostra rivista femminile la cui diffusione nei caseggiati popolari e nei campeggi batteva di gran lunga quella di ogni altra pubblicazione. Dopo il mio show come Husbands, dovevo impersonare il dottor Doris e sfornare a gran velocità la rubrica di sessualità e psicologia. Sempre tenendo presente che i sondaggi nazionali avevano rivelato che le lettrici di Donna Mese erano su posizioni moderate in materia di sesso, moda, alimentazione, politica e allevamento dei figli. Diedi una scorsa a una lettera recente di una delle nostre lettrici:
Caro dottor Doris, vorrei dare un consiglio a quei genitori che si preoccupano perché i loro bambini dicono bugie. Il nostro Bobby e sempre stato un terribile bugiardo finché non abbiamo avuto questa idea. Dopo averlo sorpreso a mentire, gli abbiamo fatto indossare un vestito di sua sorella e lo abbiamo costretto a stare in piedi nel giardino per tutto il pomeriggio.
Alla lettera era acclusa una foto di Bobby vestito da bambina, che dava l’impressione di essere rimasto psicologicamente segnato da quell’esperienza per tutto it resto della sua vita. La lettera finiva così:
Adesso, ogni volta che pensiamo che lui possa accingersi a rac-contare una bugia, ci limitiamo a dire: “Ricordati il vestito di tua sorella”.
Mi sembrava una soluzione perfettamente ragionevole. Eppure, nonostante un contatto così stretto, io non conoscevo veramente la lettrice di Donna Mese. L’immagine che ne avevo era quella di una donna con un reggiseno Lovable, che accentua l’eleganza del suo bagno con centrini di carta dentellata, ripone i guanti di spugna in animali di ceramica con la bocca spalancata ed esprime la sua natura più intima su guanciali che recavano insolite scritte come: “La Mamma Più Grande del Mondo”.
Uscii dalla mia cella per fare una breve chiacchierata mattutina con Hattie Flyer, direttrice delle nostre diffusissime Storie di Giovani Infermiere, Le Mie Confessioni e di altri numeri speciali come Confidenze di Giovani Spose.
(© La Gazzetta di Mezzanotte, Leonardo editore)
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