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Per capire l’evoluzione umana bisogna aver letto Dagospia tutti i giorni più volte al giorno (almeno tre) negli ultimi 20 anni

23 Maggio 2020
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La prova che Roberto D’Agostino è un genio sta nell’ultima parola coniata per descrivere questi tempi cupi di censura mondana: la Covida. Eppure chi oggi incensa i 20anni di Dagospia all’inizio lo dileggiava con la presunzione di chi ha il culo al caldo.

Nel 2000, quando è nato Dagospia, il giornalismo on line era il nulla. La morte civile, per chi faceva questo lavoro, era rappresentata da una prospettiva che più che rimossa non era nemmeno presa in considerazione.

Nessuno era convinto che il giornalismo online avrebbe avuto una vera evoluzione. Pochi riuscivano a vedere oltre.

Dall’altra parte le prime testate online raccattavano nel migliore dei casi delle creature strane, metà geek e metà aspiranti giornalisti e scrittori. Molti di loro peraltro piuttosto saccenti e livorosi.

Mentre tutti si esaltavano all’idea di avere finalmente libertà di parola e accesso democratico alla platea mondiale, si potevano già intercettare i segnali inquietanti di un universo che avrebbe cancellato tutte le regole fino ad allora esistenti nella comunicazione dei mass media.

Erano altri anni, internet era lenta come oggi lo è il trasferimento del bonus alle partite iva. Le connessioni erano preannunciate da rumorini striduli e fischietti da risonanza magnetica.

Roberto D’Agostino, invece, era già molto famoso: aveva fatto la tv, scriveva libri che la gente si regalava per Natale e faceva a botte con Sgarbi (oggi sono amici, forse perché uniti da una libertà di pensiero che non si vede da nessuna altra parte).

Dago ha lavorato anche per i giornali a cui piaceva osare. È un maestro del giornalismo di costume, definizione che nessuno usa più perché ormai tutto è costume e sarebbe ridicolo definirsi giornalista di costume.

Forse aveva capito tutto prima degli altri. Dove tra gli altri mettiamo dentro opinionisti, corsivisti, umoristi imbolsiti, vignettisti sempre uguali a se stessi, giornalisti leccaculo. E poi, editorialisti-killer a gettone, grandi autori tv, mezzibusti bellimbusti, star del cabaret passati alle televendite, inviati dentro la mestizia, e via via fino ad arrivare ai grandi editori di giornali, controllati dai grandi gruppi economici.

È proprio lui, D’Agostino, a chiarire nelle interviste di questi giorni che i poteri forti iniziarono a usare Dagospia per passarsi messaggi criptati. Lo aveva capito e usava loro, perché quei messaggi erano pur sempre delle notizie bomba.

Comunque tra i giornalisti l’idea di Roberto di correre da solo contro tutti, di porsi dentro la rete senza rete faceva paura, perché poneva ogni giornalista davanti al proprio tasso di reale indipendenza e libertà di espressione. Per tutti era meglio pensare che quell’iniziativa fosse ridicola.

Dagospia e il suo fondatore sono andati avanti, fottendosene alla grande dei tentativi di delegittimazione che partivano come missili da tutte le parti.

Roberto D’Agostino è stato il primo giornalista italiano a capire una lezione che ancora oggi si fatica a capire, ovvero che Internet non è un fine ma un mezzo. E che a fare la differenza sei tu per come sei e per come e quanto hai voglia di sgobbare nel lavoro che sai fare.

Non è l’unica lezione. Dago ha capito anche molte altre cose. Per esempio che il design raffinato dei siti è una cagata pazzesca, perché contano i contenuti, solo i contenuti, belli brutti e cattivi. Buoni meglio di no. E ora che si naviga da mobile, questo è ancora più vero.

Chi lo dileggiava per aver copiato la grafica di Drudge Report, sito politicamente scorretto nato nel 1995 dalle sinapsi del giornalista americano Matt Drudge, ora può spalmarsi di Nutella i gomiti nella speranza di ingoiare la notizia: Dagospia e Drudge sono ancora vivi e in ottima salute.

Una schermata del Drudge Report

Festeggiano i loro compleanni mentre centinaia di testate italiane hanno chiuso o stanno chiudendo per manifesta incapacità di parlare ai lettori. Non per colpa di Dagospia o di Internet, come dicono, ma per colpa loro, della loro autoreferenzialità.

Come se, poi, a dirla tutta, l’80 per cento dei giornali italiani non sia stato nei decenni copiato nella grafica e nel concept da giornali americani, inglesi e francesi…

Altra lezione importante che arriva da Dagospia e da questi 20 anni vissuti pericolosamente, è infatti quella che poggia sulla regola numero uno del giornalismo di costume fatto con i controcazzi: la realtà ha sempre un lato leggero, involontariamente comico, tutti hanno segreti, segretini, segretucci, chi si prende troppo sul serio è perduto.

Regola dimenticata ormai da tutti i giornali, nella pretesa sconsiderata di non voler entrare nel gioco sadomaso dei social media. Come se le fiammate dei social fossero davvero un serio problema.

Brutto periodo per le testate tradizionali: il politicamente corretto che falcia i cervelli brillanti, la controcultura ridotta alle agiografie di improbabili ambientalisti, i social che destabilizzano gli schemi dei cupiredattori. E poi gli investitori pubblicitari che premono forte affinché i giornalisti siano tanto tanto affettuosi nei confronti dei loro prodotti.

Peccato, molti editori si impegnano seriamente ogni giorno per sopravvivere, per sorreggere marchi gloriosi. Difficile dire se la ricetta Dagospia fosse applicabile, in tempi non sospetti a giornali e tv.

Però tant’è. Il lettore, là fuori, impazzisce da sempre per sapere che il mondo dei potenti, dei ricchisfondati, dei politici, degli intellettuali radical chic è sempre venato da goffaggini e cialtronerie.

Che in fondo, dietro a chi trionfa in qualche campo c’è più bottadiculo che talento. Perché tutte le disavventure hanno per lo più le loro compensazioni, come scriveva Somerset Maugham, nonostante la vita sia breve, la natura ostile e l’uomo assurdo.

È un bisogno primario quello di essere rassicurati sul fatto che tutti, ricchi e poveri hanno qualcuno che gli appioppa un soprannome sputtanante e geniale da giocarsi nelle serate in compagnia. Purché il soprannome sia una sintesi di verità, pensiero, sarcasmo e perfino di acume investigativo.

Grazie Dagospia per questi 20 anni.

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